Regia di John Cameron Mitchell vedi scheda film
A New York ci entriamo dall’alto. La macchina da presa vola tra i palazzi, cercando qualcosa. Ma la città non è esattamente come la conosciamo. E’ come in un sogno acido, plastificato, colori pastello, un modello in scala di un mondo fantastico. La macchina da presa continua a muoversi tra questi grattacieli coloratissimi fino ad arrivare ad una finestra. Entra dentro. Una vasca da bagno, un ragazzo nudo. Si sta riprendendo.
Piccole stanze, ambienti interni. Queste saranno le nostre coordinate. Il privato, tutto quello che la maggior parte delle persone non potrà mai capire.
Il ragazzo passa in salone, si sdraia per terra, si piega all’indietro sull’addome fino a quando il suo cazzo non tocca le sue labbra.
Altre stanze, altri ambienti, altre storie.
Una coppia sta scopando alla grande, posizioni da annotare, un orgasmo da raggiungere.
Un’altra donna sta frustando un uomo, lo colpisce duro, sulla pancia, sulla schiena. Una relazione a pagamento. Per vivere si può escogitare qualsiasi sistema.
Il montaggio si fa più frenetico. Climax. Le immagini e i protagonisti accelerano. Si vuole raggiungere un orgasmo, filmico quanto reale.
Il ragazzo nel salone riesce a sborrarsi in bocca, ingoia tutto. La coppia gode a vicenda. La dominatrice continua a frustare il suo schiavo, fino a quando questo non sborra, i schizzi del suo sperma imbrattano un quadro dietro di lui.
La dominatrice guarda meravigliata.
Arte non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente.
John Cameron Mitchell inizia in questo modo il suo film. Poi intreccia le varie storie, ci mostra quello che si muove dentro i suoi protagonisti, i loro limiti, le loro speranze, i loro obiettivi.
Stanze e ambienti privati. Quello che abbiamo dentro, il nostro mondo interiore.
Non è un caso.
L’esterno è solo un plastico di luci è colori. Un qualcosa di cui non sapremo niente, forse perché già lo conosciamo fin troppo bene.
Lo Shortbus è il locale dove i vari personaggi si incontreranno. Un posto dove non ci sono limiti di alcun tipo, dove la presunta morale (ma leggete ipocrisia sociale) cede il posto ad una più libera esperienza del proprio essere e del proprio corpo. Si scopa per sentirsi liberi, per conoscere il prossimo, si parla in maniera spudorata di tutto quello che viene sempre marchiato come osceno o perverso o malato.
Il punto è che il regista tratta tutto questo con una naturalezza così delicata e ironica ed emozionate che anche le scene più esplicite hanno un sapore così dolce che non rimane altro che lasciarsi trasportare dalle sensazioni che prendono vita sullo schermo. James Cameron Mitchell parla direttamente a quello che abbiamo dentro ed è uguale per tutti, etero, gay, lesbo, travestiti, transessuali. Ci parla dell’amore. Del vero amore. Di quello che si può donare realmente. Senza troppe parole e senza tante stronzate. L’amore che si dona mettendo un cazzo in una bocca o in una fica o in un culo. L’amore di un bocchino, di una sega, di una leccata di fica. L’amore di uno sguardo, mentre stai venendo e sei la persona più indifesa e felice del mondo.
Di questo parla il film, di come attraverso il sesso ci potremmo amare in una maniera così pura e gioiosa che non esisterebbe più nessun odio, nessuna rabbia, nessun dolore.
C’è la prima sequenza allo Shortbus che mi ha fatto piangere. Quando un ragazzo abbraccia e bacia un signore anziano. Io non so bene come accada questa cosa, ma certe volte davanti alle immagini provo sensazioni talmente forti che i brividi iniziano a salirmi lungo tutta la pelle. Immagini, parole, musiche che fluiscono e ti parlano, ti dicono cose, ti prendono per mano e ti fanno attraversare lo schermo per portarti più vicino a loro.
E poi c’è Justine Bond, signora del locale. Sentirla cantare nella scena finale ti fa rappacificare con la vita, con tutte le merdate che credi eterne, con tutti i problemi che credi insormontabili.
Catarsi non è la parola esatta, ma è la prima che viene in mente.
E se da un parte c’è chi attraverso il sesso riscopre se stesso o esprime le sue pulsioni più profonde, c’è anche chi non riesce a far oltrepassare alle emozioni che la pelle gli dona il confine della propria epidermide. E quindi l’amore, la gioia, la felicità non riescono a passare. Rimangono congelate nei gesti e nei tentativi di amare.
James (il ragazzo dell’inizio) vuole lasciare qualcosa a Jamie (il suo compagno) quando capisce che la sua pelle è diventata impermeabile alle emozioni. Gli lascia quindi un film, delle immagini. Gli lascia appunto quello che di più esterno a noi possa esistere. Il nostro riflesso, l’illusione di quello che siamo. Ed è in questo preciso istante che la magia del cinema prende vita. Le immagini ci trasportano dentro. Dentro i personaggi, dentro lo stesso James, dentro la sua vita. Così come il suo film privato l’intera pellicola di James Cameron Mitchell è un viaggio dentro la pelle, il sesso è il nostro vascello e il mare in cui ci muoviamo è quello in cui le correnti della nostra fisicità rifluiscono nell’abisso della nostra anima, il vero luogo dove scorrono le cose più belle che abbiamo, quelle della nostra umanità.
Shortbus è un film meraviglioso, dove ancora non si sono perse le utopie degli anni sessanta, dove Andy Warhol e tutta la sua opera continuano ancora a vivere, dove i diversi (così come nei film di Almodovar) hanno così tanto da dirci e da insegnarci che è ancora più ridicolo il pensare a loro in questo modo.
L’amore e la pace che tanto si proclamano non sono poi così lontani.
Almeno per me è solo la distanza tra il mio cazzo e la fica di chi amo realmente.
La vera pace è solo il prossimo orgasmo che saremo in grado di farci provare a vicenda.
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