Regia di Alejandro González Iñárritu vedi scheda film
In fin dei conti non mi è dispiaciuto. Si può vedere una prima volta senza dubbio e poi, perché no, anche rivedere in altre occasioni in seguito. Di solito incontro delle serie difficoltà nel riuscire ad apprezzare film corali di questo tipo, perché sovente la frammentazione e l'alternanza spezzano invero l'affezione e l'interesse, oltre a diminuire le possibilità di approfondimento che si sarebbero avute trattando separatamente le storie che si è scelto d'immischiare fra loro. Stavolta invece le connessioni, nonostante siano forse deboli, sembrano reggere ugualmente il gioco. Pur non apportando sorprendenti variazioni sul tema, ci si trova coinvolti nella vicenda senza nemmeno sapere di preciso giustificarne la ragione. L'incedere lento, talora prolisso, non è debilitante come credevo al principio. Nonostante i loro difetti, infatti, i protagonisti - difficile definire chi siano i principali e chi siano i secondari - sono in grado di suscitare il giusto livello di compartecipazione per assicurarsi l'attenzione di chi assiste ai loro episodi di vita. Il realismo di certe umane situazioni di disagio e di degrado colpisce nel segno. Non contano e non importano più di tanto i dialoghi, in quanto la comunicazione avviene qui piuttosto tramite le pure sequenze d'immagini. Ho inoltre avuto la sensazione che nella versione italiana abbiano doppiato fin troppo nella nostra lingua, pure in scene dove nell'originale erano previsti gli idiomi locali con relativi sottotitoli per comprenderli, molto più di quanto non sia rimasto nell'edizione distribuita. Devo però confermare, a dispetto del coinvolgimento, di avere provato un senso di smarrimento e incompiutezza, al termine di tutto. Quindi è proprio questa percezione finale a gravare sul mio giudizio complessivo, che tiene conto del grado d'insoddisfazione nel ridimensionare la promozione a una sufficienza, tuttavia dignitosa.
Un tragico incidente coinvolge una coppia di americani in Marocco provocando una catena di eventi che travolgono quattro famiglie in altrettante nazioni del mondo, legate dalle circostanze, ma divise dai continenti, dalla cultura e dalla lingua: un'adolescente giapponese sordomuta e suo padre, una tata messicana perduta con i due bambini della coppia ferita e la famiglia berbera dei due ragazzini armati. Le loro vite, i loro destini, dipenderanno da un gesto del passato: il dono di un fucile. Perché ogni azione produce un effetto, anche a distanza.
Ha gestito bene, con stile, il continuo alternarsi nello spazio e nel tempo dell'intreccio.
Richard Jones. Compie il suo dovere con convinzione.
Susan Jones. Una forte espressione del dolore. Brava.
La tata Amelia. Grazia alla sua notevole immedesimazione, coinvolge nel suo apparire spontanea.
La ragazza sordomuta Chieko Wataya. All'assenza di parole rimedia con una mimica d'impatto.
Gustavo Santaolalla richiama nella musica le distanti atmosfere delle tre realtà umane coinvolte.
Più di una sciocchezza commessa da diversi personaggi. E una di loro l'ammette persino.
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