Regia di Bruno Dumont vedi scheda film
André Demester come David di Twentynine palms ma soprattutto come Pharaon de L'humanité e Freddy di La vie de Jésus. Se non sapessi che è un film di Dumont lo capirei solo dal primo gesto grezzo (com'erano grezzi i movimenti di Freddy) ma soprattutto dalla prima inquadratura di questo viso tozzo e bidimensionale, dall'impatto con questo primo volto, inespressivo (o meglio incapace di esprimere emozione), un volto che è una dichiarazione d'intenti e un marchio di fabbrica, un attore scelto per incarnare quest'idea costante, del cinema di Dumont, di rappresentare persone apparentemente senz'anima, per asciugare la narrazione e lasciare che in qualche modo un'idea della loro anima venga fuori da sé.
Freddo e distaccato come sempre, parrebbe inizialmente qui forse meno crudele del solito: per una volta nemmeno il sesso è guardato con quell'asprezza a cui ci avevano abituato i precedenti film. Sempre nel gelo più totale e assolutamente privo di emozioni, va sans dire: addirittura, onorato del rispetto della distanza, in quell'unico caso in cui un'emozione c'è, ma è negativa (lo stupro collettivo, stranamente abbandonato nel momento in cui è proprio André a fare la sua parte).
Ma torna psicologicamente violento in seguito. E lo stile torna il suo: quando con un bel pugno nello stomaco Dumont accosta due tipi di violenze, maschile e femminile, innaturali e crudeli entrambe, ciascuna a suo modo; perché in un modo o nell'altro lo stacco netto sulla ragazza, Barbe, immobile nel suo letto, evoca qualcosa di violento nei suoi confronti, che sia quella che si prepara, col suo ricovero in ospedale, o che sia l'argomento della sua ultima conversazione con l'amica, ossia l'aborto, anche se solo lontanamente evocato. Per carità, lungi da me aprire in questa sede un dibattito morale sulla legittimità e /o crudeltà dell'aborto e men che meno delle cure psichiatriche: sto solo cercando di tradurre il messaggio di Dumont. E quel che mi sembra di comprendere è che l'evirazione del soldato venga accostata all'aborto, avvenuto o solo ipotizzato, o in generale alle violenze autoinflitte o inflitte a Barbe.
Ad ogni modo, anche il suo messaggio non è un'opinione, a ben guardare, ma una mera constatazione della fisicità degli atti mostrati. Appunto, prima che intervenga la ragione a dar loro una connotazione positiva o negativa.
Amore o violenza, André è comunque impassibile. Scorrono emozioni non formulate, questo sì. Come dire: si sentono suoni, ma non si percepiscono le parole. Di Barbe invece si sentono fin troppo le emozioni, lei grida, si dimena, impazzisce ma forse, alla fine, è il nodo centrale del film.
Riflettendoci, un pensiero mi attraversava la testa durante il film: mi chiedevo perché Dumont avesse sempre bisogno di allontanarsi dall'ambiente 'naturale' per tirare fuori delle risposte, per analizzare l'uomo o meglio consentirgli di farlo lui stesso, senza intromettersi. Per favorire una catarsi, insomma. Non riuscivo a capirlo perché apparentemente solo Twentynine palms e questo Flandres adottano questo mezzo, ossia l'altrove, lo spazio distante in cui cercare se stessi. Non mi quadrava: poi ho realizzato che anche nei primi due c'è un Altro che ci costringe al confronto, noi spettatori insieme ai personaggi. Che sia il ragazzo arabo che crea la svolta narrativa che determina il corso degli eventi, oppure l'omicidio iniziale che crea scompiglio nella vita di Pharaon (benché nel quotidiano di Pharaon, l'Altro è comunque rappresentato anche da quelle fughe fuori casa, al mare o semplicemente in giro, solo ma più spesso con Domino e Joseph).
E quindi, come dire, non troviamo noi stessi se non usciamo fuori, in terreno sconosciuto, e poi torniamo a casa. O anche, non siamo nessuno finché non usciamo allo scoperto, finché non rischiamo in un territrio ignoto. Che è un messaggio non da poco. Indicare una strada senza dare una risposta univoca preconfezionata.
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