Regia di Bruno Dumont vedi scheda film
Naturalismo e simbolismo avviluppati nella stessa commossa voragine di tristezza.
Variazioni sul tema de L'Humanité: il Bene, il Male, e il loro necessario incontro per una nuove definizione morale, umana, esistenziale. Il personaggio di Demester è un po' un nuovo Pharaon che ha baciato in bocca il Male e che adesso è in lento inserimento negli andamenti fra il meccanicistico e l'arbitrario degli esseri umani. E' infatti poco quello che dà a Barbe, sua amica d'infanzia e occasionale amante, ma è poco anche quello che da Barbe ottiene, benché ne sia innamorato come si era innamorati di una Domino prorompente e divisa fra due uomini nel secondo film di Bruno Dumont. Barbe, scrutando il volto sgraziato di Demester (essenzialmente buono, ma corrotto dalla piattezza dell'esistenza nei dispersi luoghi quotidiani), si concede a Blondel, giovane del reggimento che sta per partire insieme a Demester e a un altro giovane per la guerra. Nel triangolo amoroso che si viene a creare (e che non può non ricordare L'Humanité) si ha la costante sensazione di quanto Demester subisce, nella desolazione bressoniana della regia dumontiana, e di quanto effettivamente soffra dietro l'incapacità (evidente nella dimensione relazionale) di reagire alle provocazioni e alle ingiustizie che gli vengono perpetuate.
E improvvisamente Dumont, senza enfasi né indicazioni esplicite, analizza un altro microcosmo, quello di Barbe, il personaggio più ambiguo e interessante della vicenda. Lei comincia ad essere insultata dai vari abitanti del piccolo villaggio di campagna in quanto 'donna di facili costumi' (per usare un eufemismo) poiché si concede alternativamente a Demester e a Blondel, mostrando chiaramente un maggiore slancio passionale per quest'ultimo a discapito del primo. Nell'incontro di queste due dimensioni umane (Barbe e Demester), analizzate nella prima mezz'ora di film nel grigio quiescente della profonda provincia, Dumont racconta, con il suo piglio semplice e (anti)minimalista, l'intersecarsi inesorabile e continuo della realtà e del simbolo, e come in un dipinto impressionista coglie un dettaglio innocuo e apparentemente insignificante e ci costruisce sopra una montagna di allusioni, sia al cinema che lo precede sia al suo stesso cinema, con un rischio di autoreferenzialità che, almeno in Flandres, gli si perdona, per l'accuratezza dello stile e la costruzione caratteriale dei personaggi. In questo incontro fortuito ma calcolato di casualità e causalità, di chiarezza e di mistero, di naturalismo e di simbolismo, il regista costruisce una brillante ma contenuta piramide di antipodi, di opposti, che si sintetizzino poi in un terzo passaggio in cui il risultato non si rivela tanto la somma dei due opposti (che sarebbe, eventualmente, zero) quanto la loro compenetrazione, la loro reciproca assimilazione e, infine, la loro Artistica simbiosi. Il triangolo amoroso, il triangolo cronologico, il triangolo paesaggistico: nelle triadi che reggono le fila del quarto film di Bruno Dumont si ricerca un percorso di definizione morale ed umana che l'arte cinematografica si impegna ad ottenere, ovvero il tentativo, disperato ma contenuto, di comprendere i massimi sistemi e di vederne non tanto l'applicazione nel reale, quanto la loro verità effettuale, la loro immersione, necessariamente distorta dal relativismo esistenziale, nella realtà. I personaggi sono disposti su una scala che assurge al manicheismo ma lo destruttura dal di dentro, rivelando un'improvvisa nuova tendenza alla reinterpretazione umana. Demester è un Bene, corrotto dalla conoscenza del Male; Blondel è un Male involontario e inconsapevole; Barbe è l'essere umano a cavallo fra le due dimensioni, e si accorge lentamente di quanto sia prosaica l'eventuale ascesi all'affetto e all'amore nei confronti di entrambi. I tempi si intersecano anch'essi, a partire da una semplicità immediata a una maggiore complessità lungo lo sviluppo della vicenda, in uno scambio mai casuale di momenti nel villaggio, che si focalizzano su Barbe e sulla sua gravidanza, e momenti nel deserto, in cui Blondel e Demester sono impegnati negli scontri armati e che, con il suo clima torrido e soleggiato, costituisce l'antitesi del grigiore provinciale e campagnolo (in cui i corpi sembrano distanti anche quando vicini fra loro e distanziati dalla natura a causa della contemplazione della stessa, come se la vista costituisse un terribile impedimento: lo sguardo si perde curioso ma rassegnato dietro le piccole ondicine che il fuoco di un falò può generare lungo i rami di un albero secco). I corpi invece sembrano paradossalmente più vitali e carnali nella sabbia del deserto e nel sangue che improvviso e profondamente "banale" sgorga dalle ferite dei morti ammazzati, anche dopo un semplice sparo isolato e a se stante nel bel mezzo di un silenzio di morte. Impossibile non pensare, nelle sequenze centrali, ad almeno due film preesistenti: uno particolarmente distante, come Full Metal Jacket, nel momento della scoperta in cui a sparare e a uccidere erano due ragazzini (che sostituiscono la ragazzina del film di Kubrick), e Au Hasard Balthazar, quando ancora si rende esplicita la condizione di sottomissione che subisce Demester dall'ambiente che lo circonda e un asino inerte e immobile assiste alla scena violenta di due o tre omicidi di fila. In un deserto che non poco ricorda il californiano Twentynine Palms e la violenza che vi si verificava (con tanto di stupro e di morte, nonché questa volta addirittura di vendetta), Dumont rivela il lato bestiale ma vitale dell'uomo, sotto un sole cocente che avvicina le persone, e rivela la natura profonda e inevitabile del contatto umano: la distruzione. Anche nelle distanze necessarie per cui un proiettile vagante buca il cranio dei soldati o ferisce il loro cuore.
Quasi come nel bacio de L'Humanité il Bene di Demester finisce per definirsi nell'abbandono (inevitabile) del corpo di Blondel, cosicché, una volta tornati ai luoghi d'origine, Dumont possa realizzare la sua sintesi quasi hegeliana degli indizi distribuiti lungo la pellicola, distribuiti non in maniera evidente e esplicita, ma sottile e raffinatissima: nella campagna adesso è estate, il grigio non c'è più, è passato un po' di tempo, e i dolori ancora sono cocenti, i dubbi esistenziali e sentimentali tanti, la voglia di vivere forse riacquistata (o forse momentanea), l'incontro con il Bene, sebbene basso, sporco e quotidiano, palpabile. Dopo La vie de Jesus, una delle vette del cinema di Dumont fino al 2006: forse perché, per chi scrive, più avvicinabile di altri.
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