Regia di Bruno Dumont vedi scheda film
Negli spazi anonimi della campagna del nord della Francia, un giovane contadino, Demester, trascorre le proprie giornate lavorando presso la propria fattoria ed incontrandosi di quando in quando con una sua giovane vicina, Barbe. Un giorno, però, arriverà la chiamata alle armi e Demester, insieme ad altri due ragazzi della zona, partirà per il fronte. Non importa quale e dove sia la guerra; i morti e il dolore sono sempre i medesimi; le conseguenze pure.
"Flandres" è un'opera di un pessimismo e di una desolazione persistente; di gesti e sguardi persi nel vuoto, più che di parole; di violenza, ma anche di sentimenti difficili da comunicare.
Asciutto, raggelante, sconsolato.
Un'opera in cui il paesaggio circostante, o meglio la terra, accompagna questi ermetici personaggi. Ne è specchio e contemporaneamente testimone. La quotidiana routine della prima parte è avvolta da cieli nuvolosi, da paesaggi spogliati dal tardo autunno francese, dal fango. In questa cornice Barbe e Demester celebrano il proprio accoppiamento; meccanico, rapido e privo di passione. Come spinti da un naturale istinto "animale" si uniscono e poi si staccano. I sentimenti veri, che forse non si conoscono ancora a fondo (e che comunque non si riescono ad esprimere), rimangono lì tra l'erba, dentro i boschi, nel fango. Vorrebbero dire o fare di più, ma non possono, almeno per il momento.
I toni freddi della campagna francese lasciano ad un certo momento il posto all'abbagliante luminosità desertica del fronte. Un fronte anch'esso anonimo che sin da subito si tramuta in un polveroso teatro di barbarie. Morte e sangue si mescolano all'arida terra e tutti rimangono coinvolti, compresi Demester e i suoi compagni.
Chi, poi, è tornato a casa, ha rovato comunque qualcuno ad aspettarlo. Adesso forse qualcosa può cambiare....in meglio.
Trovo azzardato definire Dumont come un nuovo Bresson, però l'impostazione (almeno) di questo "Flandres" è chiaramente bressoniana. Una regia asciutta che procede per sottrazione; lo sguardo desolato su un'umanità (dis)persa; i silenzi e gli sguardi più che le parole; l'importanza data ai rumori; l'assenza di una colonna sonora; la fissità (almeno nella prima parte) delle inquadrature; la laconicità dei personaggi; la recitazione trattenuta degli attori, o meglio, di quella del protagonista che interpreta Demester. Detto questo, il gioco delle ellissi e soprattutto la costruzione di partenza delle inquadrature (che in Bresson parte spesso dai particolari e non dai totali) sono differenze non da poco.
Francamente non capisco tutto quest'astio gettato addosso ad una pellicola del genere. Ce ne fossero di film così!
8
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