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Flandres

Regia di Bruno Dumont vedi scheda film

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La recensione su Flandres

di Peppe Comune
8 stelle

Andrè Demester (Samuel Boidin) è un ragazzo che vive e gestisce una fattoria nella fredda campagna delle Fiandre. Sua vicina di casa è Barbe (Adèlaide Leroux), una ragazza assai disinvolta sessualmente e con una spiccata attitudine al silenzio. I due ragazzi sono praticamente cresciuti insieme e fanno sesso nel modo più naturale possibile, come se si trattasse del semplice espletamento di un bisogno fisiologico. Le giornate passano sempre uguali nel piccolo paese di campagna e a smuovere la monotonia arriva per Andrè la chiamata alle armi in un non precisato fronte dall’altra parte del mondo. Con lui partono altri ragazzi della zona, come, Blondel (Henri Cretel), l’ultimo in ordine di tempo ad essere stato con Barbe. L’esperienza atroce della guerra segnano profondamente Andrè, che capisce dove può portare lo stupro dei sentimenti. La lontananza forzata tra Andrè e Barbe accresce il valore delle rispettive solitudini. Scoprono entrambi che hanno qualcosa nel cuore che possono coltivare insieme. Forse, dopo la guerra, potranno ricominciare. 

 

 

“Flandres” di Bruno Dumont è un film spaventosamente sconsolato, arido come la nuda terra che si calpesta e triste come solo gli occhi sottratti ai doni più piacevoli della vita possono diventare. “Ho bisogno della terra per filmare gli esseri umani” dice l’autore francese, ed in effetti, l’impressione che subito si ricava vedendo i suoi film, attraverso un ampiezza di campo che tende a cingere il particolare nel generale, è quella di trasmettere verso l’esterno un rapporto di intima interdipendenza tra le persone e il territorio che abitano, sia con riferimento al fatto che gli stati d’animo dei protagonisti sembrano riflettere la natura morfologica dei luoghi, che in relazione alla constatata e consapevole limitatezza dell’uomo rispetto all’idea del tutto di cui ogni territorio può essere partecipe. “Filmandole, le Fiandre restituiscono una parte dell’esistenza umana”, dice ancora Dumont. I sentimenti non comunicano in questo film, soffocati nelle parole mute di un silenzio lancinante. In pace come in guerra, tra la calma inespressiva della campagna o tra le dune polverose di uno qualsiasi degli scenari di guerra sparsi per il mondo, in contrasto con la vita o in lotta per la vita, è la più totale dismissione dei sentimenti a dominare la scena , una sensazione che sembra corrodere il mondo dalle fondamenta, avvolgerlo in un’atmosfera carica di un insondabile carenza affettiva e di un disperato bisogno di sopravvivere. I gesti che si compiono seguono una tale meccanicità dell’atto da far emergere l’esigenza primaria di dare sfogo agl’istinti più bassi dell’uomo secondo il più naturale rapporto di causa effetto. C’è bisogno di fare sesso, e allora ci si accoppia per scopi alimentari, senza alcun coinvolgimento emotivo e senza mai guardarsi negli occhi. Sorge la necessità di dover sopravvivere in un terreno ostile, e allora ci si adegua al gioco della guerra abbandonandosi all’esercizio della forza bruta. Solo l’urgenza di dare uno slancio vitale alla voce dei pensieri più intimi non trova una corrispondenza chiara nell’agire umano, le azioni rimangono vuote, come in attesa di un qualcosa che ne concretizzi i desideri. C’è sempre un sopra che condiziona le esistenza di chi sta sotto. Andrè e Barbe sopportano tutto il peso di questa circostanza, loro coltivano un amore sotterraneo annunciandosi l’un l’altro quando il dolore ha davvero colmato tutti i vuoti e gli occhi protesi verso il martirio chiedono una pausa di riflessione. Bruno Dumont mette la vita sul baratro dell’apatia e filma l’uomo fagocitato dalle cose del mondo. Nonostante sia contraddistinto dalla rigorosa rappresentazione dell’incomunicabilità che si compie, il suo cinema è carico di laica spiritualità. E’ un invito alla compassione senza recare pietà. E’ un cinema adulto fatto con l’occhio che indaga senza pudori, lucidamente trasversale e umanamente indispensabile, oggi.

 

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