Regia di Nuri Bilge Ceylan vedi scheda film
Ceylan mette in scena un' infelicità senza esplosioni, siamo al grado zero di un rapporto di coppia consunto, ma non dal tempo, sono giovani, non da stanchezza, si cercano, c’è stato un tradimento, di lui, in passato, ma suona come un alibi stanco, quasi a cercare un motivo per questo non amore.
Fra i plinti massicci delle colonne ioniche di Efeso l’uomo cammina con una Kodak in mano, è una minuscola figurina bianca che appare e scompare.
Un primo piano di Bahar (Ebru Ceylan) che appoggia il viso alla pietra grigia e lo guarda da lontano, gli occhi raccontano la loro storia, il silenzio è la grana della scrittura di Iklimler, Climi, titolo originale.
Estate, sole a picco fra le rovine, lui le chiede:
Ti annoi?
No
Un frullare di ali, un ronzio di vespe, lei si allontana, ha un corpo pieno, lunghi capelli castano dorato, un sorriso triste che non riesce a farsi strada.
Le cose fluttuano in una dimensione della vita a cui le parole non accedono, immagini sospese di un viaggio sulla costa, sabbia e mare, stanza d’albergo e cena nella casa di amici arrampicata sulle rocce.
Dall’estate all’inverno, il film è diviso in due climi, l’azzurro e l’ocra della prima parte e il bianco della neve sotto l’Ararat della seconda, in un villaggio anonimo sepolto fra le cime, ma vicino c’è il Palazzo di Ishak Pasha, meraviglia da fotografare per la tesi di Isa (Nuri Bilge Ceylan)
Lei si è rifugiata lì da mesi con la sua troupe (è direttore artistico) a girare un film, c’è stata una rottura dopo il viaggio in Cappadocia (meglio separarsi per un po’, le ha detto in spiaggia lui, e poi le solite frasi banali e consolatorie).
Ora però lui arriva a cercarla, ha sospeso le lezioni all’università, sente un vuoto, l’ex amante che ha incontrato non è servita a riempirlo, ma le storie degli uomini non sono cicliche come quelle della natura, fra Bahar e Isa c’è lo stesso silenzio inerte dell’estate e quel che resta di un amore è una musica distante, quella sonata di Scarlatti che si sente appena e poi chiuderà sui titoli di coda.
Felice parallelismo fra la tipica sonata scarlattiana, divisa in due sezioni uguali che s’incontrano nel punto cruciale, una pausa, e poi torna agli elementi della prima parte, e le due sezioni di questa storia che non trova energia per decollare di nuovo, tende anch’essa ad un punto cruciale (lui che parla a lei dentro il pulmino della troupe di quanto sia cambiato, di come si possa cominciare una nuova vita, le chiede di lasciare il lavoro e partire con lui) e il volo dell’aereo che lo porta via, solo, quasi invisibile nella foschia dei vortici di neve.
Adesso è troppo tardi, ha detto Bahar.
Ancora un primo piano sul viso di lei, doloroso, neve dovunque, sullo sfondo le case strette intorno al minareto.
Cani abbaiano, si sente acqua che scorre ed entra il piano sui titoli di coda.
Egregia prova di recitazione, continuamente giocata tra interiorità e gesto esteriore, entrambi portatori di uno spleen balcanico che rifiuta la verbalizzazione, Bahar e Isa sono creature di un Eden che non è fatto per loro.
Le splendide rovine delle glorie passate, gli stupendi scenari marini e montani curati da una fotografia magnifica, la loro stessa bellezza, mediterranea e solare lei, scabra e intensa lui, sono meraviglie di un mondo a cui sono estranei, l’amore è stato come risucchiato dai loro corpi, è come sparito dalla loro mente, come un sogno che non puoi raccontare al mattino, non resta quasi niente.
www.paoladigiuseppe.it
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