Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
Convinto di essere una specie di "amico di famiglia" dal cuore d'oro, il sessantenne Geremia (uno stratosferico Giacomo Rizzo, qui alla sua prima prova da protagonista) vive con la madre inferma in una topaia a Sabaudia, sull'Agro Pontino. Si mantiene facendo l'usuraio, è laido e incline a ogni bassezza, verboso, tronfio e apostrofa indistintamente tutti con "fratello caro" o "sorella cara". È così avaro da non voler spendere neppure i soldi per un analgesico, sicché se ne va in giro con una bandana che avvolge delle patate, secondo un rimedio popolare contro il mal di testa. Ha (forse) un solo amico (Bentivoglio), un antieroe solitario da film western che vive in una sorta di eremitaggio in un camper. Sarà lui, insieme a una ragazza volitiva (Chiatti), a dargli la lezione che merita, sottraendogli tutti gli averi.
Fin dalle prime inquadrature Sorrentino - che conferma una particolare attrazione verso i personaggi borderline - squaderna davanti agli occhi dello spettatore tutto il suo talento: Sabaudia viene ritratta da Luca Bigazzi come i quadri di De Chirico e la fantasia del regista spazia intorno all'immaginazione di una metafisica dell'orrore. Ciò che non convince, in questo film sgradevole eppure pieno di fascino, è l'eccesso di stile. Sembra che Sorrentino non abbia fatto che riprendere il suo lavoro precedente - Le conseguenze dell'amore - riscrivendolo in negativo: tanto era laconico il Servillo di quel film, tanto è logorroico Rizzo, che parla sentenziosamente e pontifica su qualsiasi cosa (i dialoghi sono comunque magnifici); in entrambi i film il centro di gravità è il denaro, con la differenza che lì era un mezzo, qui un fine. E poi ci sono la solitudine del protagonista, una storia d'amore impossibile, la bassezza dei tempi in cui viviamo. Gran film, verrebbe da dire, se non fosse che il regista si è fatto prendere la mano da un eccesso di talento e di virtuosismo. I nuovi mostri sono qui. Vengano signori.
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