Regia di Ron Howard vedi scheda film
Forse sono una delle poche persone al mondo che non ha letto Il codice Da Vinci; e vedendo il film mi è venuta voglia di leggerlo. Perché credo che il libro di Dan Brown sia molto meglio dell’adattamento di Ron Howard, che è macchinoso, “telefonato” e addirittura ingenuo nel suo tentativo di ovviare a questi difetti comprimendo hitchcockianamente i tempi della narrazione (quattro quinti del film si svolgono in 24 ore), sparando una musica incessante ed enfatizzando le sequenze d’azione. A scapito, immagino, della simbologia, dell’enigmistica e della vera a propria caccia al tesoro a ritroso nella Storia che la morte del professor Jacques Saunière innesca. La ”compressione” della sceneggiatura era certamente inevitabile; ma un film nel quale sono i personaggi a dover spiegare verbalmente e incessantemente ogni passaggio logico ha qualche problema a livello di invenzione immaginaria. Come un film nel quale i veri ”cattivi” dovrebbero rivelarsi nel corso delle scene finali e invece sono individuabili a colpo d’occhio, a pochi minuti dalla loro apparizione in scena (seguite il vostro istinto e li azzeccherete tutti). Il problema fondamentale, tuttavia, è un altro: si chiama ”suspension of disbelief“, sospensione dell’incredulità, indispensabile per ogni storia che abbia forti agganci con il fantastico, e addirittura quasi un ”postulato“ della fascinazione cinematografica tout court. Qui, non ci si crede mai. Non si crede a Tom Hanks con quei capelli un po’ lunghi sul collo, sciatti e mal lavati, che dovrebbero fare, immagino, ”intellettuale“ o magari ”cavaliere d’altri tempi“; non si crede a Jean Reno poliziotto integerrimo; men che meno si crede ad Audrey Tautou come ”all’ultima discendente vivente di Gesù Cristo“. Chi? Amélie? La battuta sarebbe stata imbarazzante per chiunque, ma l’assoluta mancanza di fascino personale e di alchimia reciproca dei due protagonisti la rende addirittura atroce. Gli unici che funzionano sono Ian McKellen (che ha lo humour e l’ambiguità necessari), Paul Bettany (anima persa che pare uscita da una ”passione” di George Romero) e Alfred Molina (prelato perfetto e ”duplice“). Un po’ pochino per il blockbuster dell’anno.
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