Regia di Ron Howard vedi scheda film
Il codice Da Vinci approda sullo schermo accompagnato da un battage pubblicitario senza precedenti. Stroncato dalla maggior parte dei critici, ha parzialmente deluso il pubblico. A parte un’ottima sequenza iniziale, che vede l’inseguimento nel Louvre da parte del monaco Silas, incaricato dall’Opus Dei nella persona del cardinal Aringarosa di uccidere Jacques Sornier, custode del museo nonché del più grande insabbiamento della Storia (che bello il complottismo!), il film è verboso e molto prolisso (specialmente nell’ultima, interminabile, parte) caratterizzato da dialoghi improbabili e patetici. Non è certo colpa di Ron Howard, che dimostra d’esser regista capace e ormai esperto. Bensì di una trama sconnessa e senza capo né coda, raccontata in maniera convincente ma che di convincente ha in realtà ha ben poco. Le teorie di Dan Brown e compagni sono discutibili, ma è indubbia la capacità di attanagliare il lettore/spettatore. È un thriller (o vorrebbe esserlo), ma anche un giallo (o vorrebbe esserlo), un film d’azione (o vorrebbe esserlo), un dramma (o vorrebbe esserlo), un finto film d’autore (e non lo è), un film storico (e no, non ce la può fare).
Il codice Da Vinci è un ibrido blockbuster americano che non emoziona ma intriga per la sua trama intricata, improbabile ed assurda. Lo spettatore scafato sta al gioco finché la misura è colma. La sceneggiatura non aiuta e rende la trama ancora più complicata di quel che è. Più che un brutto film, è solo una grande cavolata miliardaria maledettamente raccontata bene senza creare empatia. Se poi ci si mettono un Tom Hanks al suo peggio con capelli improbabilmente lunghi e unti e una Audery Taotou inverosimile e poco convinta (doppiata, come Jean Reno, alla ispettore Closeau) siamo alla frutta. Alfred Molina e Paul Bettany (comunque bravo come dolente monaco luciferino e masochista) parlano uno spagnolo in cui ogni parola italiana finisce con la “s”. Notevole, però, Ian McKellen: ovviamente.
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