Regia di Pedro Almodóvar vedi scheda film
A dispetto del trionfalismo che molti cronisti gli accreditano, il film di Almodòvar è quanto di più piccolo, intimo, garbato si potesse creare da una storia che altri registi avrebbero maneggiato con grande noncuranza, pressapochismo a gogò, fantasy sostituita a fantasia. Quel che più colpisce in quest’opera sommessa ed avvolgente che Don Pedro dirige con mano felice ed imperturbata, è il ruolo rivestito dalla figura femminile. Sin dal principio, con quelle donne che puliscono i sepolcri dei loro cari o che coltivano l’orticello che dovrebbe accoglierle dopo la vita, si comprendono i motivi che fanno muovere il treno di Volver: la celebrazione della donna, che, a differenza dell’uomo, sa sempre come voltare pagina dopo un episodio funesto; la solidarietà femminile come collante che unisce ed impreziosisce il vivere quotidiano; l’analisi del rapporto madre-figlia (già cavallo di battaglia del grandioso Tacchi a spillo) e, quindi, le conseguenze dell’amore.
Subissato da una profonda malinconica che scorre nelle vene come acqua d’argento, è un mèlo robusto e potente sulla gioia di vivere, un allegro dramma sentimentale che nasconde, sotto l’aurea serena, una tendenza amarognola dovuta ai conti irrisolti con un passato invadente. Sospese tra il reale e il paranormale, le donne di Volver sono emozioni in (molta) carne e (poche) ossa, che fanno la spesa, si tagliano i capelli, cucinano per trenta persone, risbucano dai cofani delle auto. L’innamorata cinepresa alamdòvariana indugia sulle forme prosperose ed accoglienti dei seni e dei fianchi. Gli uomini sono sullo sfondo, non creano interesse, ci stanno – ma condizionano le esistenze. Da un po’ di tempo Don Pedro si è reso conto che non è più tempo di colpire al cuore il conservatorismo nazionale del post-franchismo, vuole riassaggiare le atmosfere della sua infanzia, alla quale, desidera, appunto, “volver”, tornare.
È un film di ritorni, certamente metaforici ma anche tangibili, irrealmente immersi in una dimensione inverosimile e pure reale: ripartire è doloroso, ricominciare da zero può essere stimolante, ma tornare è necessario. Tornare dove? All’origine delle cose. È un tango dolente pizzicato sulle corde della memoria, come la canzone – un momento di commovente potenza – che Raimunda canta alla festa. Raimunda è una splendida Penelope Cruz nella prova più bella della sua discontinua carriera, un omaggio neanche troppo velato alla Magnani più che alla Loren (c’è Bellissima in tv), e sua madre non poteva che essere l’evocativa e strepitosa Carmen Maura, abitante indispensabile del primo cinema di Don Pedro. Quasi a voler far pace con il suo passato pre-artistico, Almodòvar è cresciuto, è tornato a casa con la consapevolezza di essere una persona cambiata. Usa la macchina da presa come Astor Piazzolla suonava il bandoneón.
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