Regia di Pedro Almodóvar vedi scheda film
Inutili ai morti, unici legami fra i vivi e gli andati. Adornate, disadorne, impolverate… diventano il “cordone ombelicale” fra chi rimane e chi è andato via, per sempre. Questo era il “sepolcro” per Foscolo, ma allo stesso modo lo è anche per Almodòvar. Entrambi artisti poeti.
Volver, il nuovo capolavoro del regista catalano, inizia con una lunga carrellata laterale, all’interno di un cimitero: tante donne sono indaffarate a pulire tombe e lapidi. Fra queste vi è Raimunda, una giovane e bella madre di famiglia che vive alla periferia di Madrid, intenta a spolverare la tomba di sua madre. Entrambi i suoi genitori sono morti qualche anno prima in un incendio. Raimunda ha una figlia adolescente, un marito traditore molesto, alcolizzato e disoccupato, una sorella, Soledad, dal caratterino non proprio semplice e una zia. L’esistenza di queste donne si svolge fra non pochi sacrifici, ad un passo fra la festosa capitale spagnola e la Mancha schiaffeggiata dal vento, in case Un giorno però, accade qualcosa che cambia la vita di Raimunda e della sorella: improvvisamente arriverà qualcuno che entrambe credevano scomparso per sempre.
Pedro Almodóvar con questo suo ultimo film raggiunge l’apice di quella poetica femminile che col passare degli anni si è fatta sempre più chiara. La descrizione dell’universo femminile, a cominciare dall’emozioni, le loro sofferenze, fino all’amore, l’eros e la solitudine, sfociano come un fiume in piena nel mare dei sentimenti che hanno sempre contraddistinto la descrizione del forte legame madre-figlia (Tutto su mia madre) e la lontananza dalla figura paterna. Tant’è che in Volver gli uomini non esistono, e se qualcuno è presente, rimane sullo sfondo, come un fantoccio privo di alcuna personalità.
Alla Zapatero, in Volver la famiglia tradizionale (si potrebbe discutere per ore ed ore su cosa s’intenda con “tradizionale”, anche in Italia…) non esiste. Perché ci sono tante reali famiglie formate semplicemente da madre-figlio/a o padre-figlia/o, “tradizionalmente” tenute nascoste. Queste esistono anche in Italia, come in ogni parte del mondo in cui esistono gli uomini a cui pulsa “qualcosa” al di dentro.
Da un punto di vista dello stile, quest’ultima opera di Almodòvar non ha nulla di surreale e tutto è perfettamente equilibrato, a cominciare dall’impostazione visiva: è fuori di dubbio che il regista giochi a mescolare i colori come su una tavolozza. Il rosso e il blu. Il bianco e il nero. L’amore e l’odio. La vita e la morte. Di mezzo il ricordo: il vero ed onnipresente “personaggio” principale del film.
Finalmente convincente l’interpretazione di Penelope Cruz, che lavorando di nuovo con Almodovar ha riacquistato quella vivacità espressiva che il cinema hollywoodiano e nostrano avevano abbastanza annullato. Ma molto brava anche Carmen Maura, ch’è un’attrice già abbastanza collaudata dal regista.
Le rievocazioni del cinema mondiale, da Bellissima a Complotto di famiglia di Hitchcok diventano l’espediente per raccontare di contro due mondi diversi: la “tv-spazzatura che non fa dormire” e il cinema dei ricordi, che come fantasma, sempre ritorna, lasciandoci l’amaro in bocca. Evidente presagio di ritorni come quelli di Almodòvar, che sempre fanno sorridere e piangere, commuovere e pensare, nella certezza che “solo i fantasmi non piangono”.
Giancarlo Visitilli
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