Regia di Rob Zombie vedi scheda film
Dopo la mattanza raccontata nel precedente La casa dei 1000 corpi, il fratello sceriffo di una delle vittime giura vendetta e sbarella la famiglia assassina. La madre viene arrestata e affidata alle cure medievali delle prigioni texane, i due figli fuggono nel grande nulla americano in attesa di ricongiungersi con papà, il clown matto Capitan Spaulding. Lo sceriffo, intanto, rimescola nel torbido delle sue conoscenze e sguinzaglia dietro ai serial killer due cacciatori di taglie che paiono usciti da un romanzo di Joe R. Lansdale. Finale col botto. Horror dal sapore squisitamente letterario e musicale, oltre che cinefilo, aspetto più scontato. Si va dai classici del caso (Non aprite quella porta, Le colline hanno gli occhi, e per quanto riguarda il rock i fratelli Allman e il clan dei Van Zant) a rimandi più sfiziosi come La fiera dei serpenti e Lucidi corpi di Harry Crews, il cantore del white trash che della famiglia demente come specchio contorto e pericoloso dell’America profonda ha fatto un leit motiv poetico e possente. Nulla di nuovo sotto il sole, dunque? Nient’affatto, perché Rob Zombie non maneggia i propri materiali né come farebbe Quentin Tarantino - interessato alla destrutturazione del mondo attraverso processi di straniamento del racconto - né come farebbero i troppi registucoli horror di oggi, interessati solo agli ammiccamenti cinéphile. In La casa del diavolo c’è qualcosa che manca a tutti loro: l’epica. Ovvero la capacità di trasfigurare i personaggi, le loro azioni e persino la loro interazione con l’ambiente in qualcosa di simbolico, addirittura di eroico se si accetta di dare all’espressione un connotato che vada al di là dell’accezione morale, positiva, che ovviamente stride con le figure in questione. E va da sé che non ci sono, in questa storia, i buoni, dato che tutti partecipano del medesimo macello. Però è epico il loro cavalcare sulle terre desolate dei James Lee Burke (filone texano) e dei Cormac McCarthy; oppure in silenzio verso la morte come in Sam Peckinpah. Con l’aggiunta di un tocco gotico-fiabesco che dal versante macabro si contrappone al western e agita i fantasmi del mondo di Oz, come dimostra quello spastico omino di latta che all’inizio si agita sotto i proiettili della cavalleria. Sostenuto da un buon mix di ironia e disperazione, il film è eccezionale ma naturalmente va consigliato solo a chi abbia un po’ di pelo sullo stomaco. Astenersi anime candide.
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