Regia di Fernando León de Aranoa vedi scheda film
Con questo suo secondo lungometraggio, Fernando León de Aranoa si aggiudica ben due premi Goya, per la miglior regia e per la miglior sceneggiatura. A questi se ne aggiunge un terzo per Marieta Orozco, come migliore attrice rivelazione. Il barrio è la periferia madrilena. È il quartiere dormitorio dove tre adolescenti, Javi, Rai e Manu, abitano insieme alle loro famiglie problematiche, disgregate o in procinto di diventarlo. Principale scopo delle loro giornate è trovare un modo per guadagnare qualche soldo e poter così soddisfare i loro piccoli o grandi desideri. I mezzi che escogitano hanno tutti qualcosa di scorretto o di illegale, ed i loro tentativi naufragano miseramente, come la speranza di costruirsi una vita migliore. Il divertimento muore sul nascere e lo squallore si estende ovunque, non risparmiando nessuno. Una sinistra magia grava sulle loro vite, fatte di scorribande insistentemente lambite dai fantasmi della deriva esistenziale: le loro strade si incrociano con quelle dei vagabondi, dei senza fissa dimora, che vivono in mezzo ai rifiuti, sotto i ponti, in una stazione abbandonata della metropolitana. La loro immaginazione si infanga nella melma del degrado: la loro fantasia si nutre di quello che le capita sottomano, che è sempre deludente anche quando è proibito, come una pizza rubata e diventata fredda, o una chiamata al telefono erotico a cui risponde una voce registrata. Il nostro neorealismo e, soprattutto, i pasoliniani ritratti di borgata ci hanno insegnato che le bravate dei poveri sono diverse da quelle dei ricchi: sono scatti ribelli che emergono dalla sporcizia e di questa imbrattano i sogni. De Aranoa ce lo illustra, con dovizia di esempi, in una storia in cui la tragicità dimentica la poesia per sposare la commedia contemporanea, spogliandola di ogni comicità, e riempiendola di futilità e frustrazione. Della tradizionale buffoneria e grossolanità del filone giovanilistico rimane solo un’esile traccia: una vivacità d’azione e di pensiero che colma efficacemente il vuoto della noia, però rimane provvisoria e senza prospettive. Lo scherzo è già parte della vita adulta, ed anticipa la crudeltà di un destino scritto nell’appartenenza sociale. A minare la normalità è quell’ambiente di cemento e polvere che è un invito alla corruzione, e indica l’inganno, nel bene e nel male, come l’unica possibilità di sopravvivenza. Manu mentirà al datore di lavoro per poter essere assunto, e al padre per alleviare la sua profonda sofferenza: in questo modo si chiuderà il cerchio di una triste vicenda, ruotante intorno ad una misera manciata di denaro. Di questo, in fondo di tratta: del miraggio del denaro che piove dal cielo, e che i tre protagonisti cercano di strappare con le unghie e coi denti al mondo dell’impossibile, per portarne sulla terra almeno un brandello. Quei ragazzi affrontano la durezza con l’entusiasmo dell’innocenza, che li spinge a provare sempre strade nuove, e inevitabilmente sbagliate. Un gioco che parte dai richiami consumistici, passa per il sotterfugio ed approda alla delinquenza, senza che mai risulti chiara, ai loro occhi, la drammatica serietà della questione. Solo alla fine, alla luce del sanguinoso epilogo, il tutto assumerà un senso compiuto: qualcuno imparerà che l’errore può uccidere, qualcun altro che la rabbia fa davvero tanto male, e solo uno capirà che l’amore, invece, salva.
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