Regia di Byambasuren Davaa vedi scheda film
Seporre il cane con la coda sotto la testa perché rinasca uomo in un’altra vita, scegliere lo sterco degli animali come giocattolo e quant’altro, è tutto ciò che caratterizza la vita in una terra che tutti si vorrebbe, almeno una volta nella vita, visitare: la Mongolia.
Ispirato da una storia di Gantuya Lhagva, Il cane giallo della Mongolia racconta la storia di Nansal, la figlia maggiore di una famiglia nomade della Mongolia, di ritorno a casa dai mesi trascorsi a scuola, che trova un piccolo cane in una grotta e lo porta a casa con sè. Suo padre non ne è contento, perchè ha paura che possa portare sfortuna e vorrebbe che la figlia si liberasse di lui, ma la piccola lo tiene con sè, cercando di tenerlo nascosto. Quando la famiglia si sposta in un nuovo accampamento, il padre decide di non portare il cane con loro, e lo lega ad un palo per impedirgli di seguirli. Ma il cane, in un finale emozionante, darà prova di essere degno di essere accolto nel branco/famiglia.
Byambasuren Davaa, regista mongola cresciuta nelle scuole di cinema tedesche, che aveva già co-diretto La storia del cammello che piange (candidato nel 2005 agli Oscar come miglior documentario) ci offre una vasta scelta di temi in questo film, ed in particolare il forte rapporto tra uomo e natura, uomo e modernità, uomo e mondo animale, la Terra e il Cielo.
Non è difficile, sin dalle primissime sequenze, comprendere che la poesia, come ne La storia del cammello, la fa da padrona, avvalendosi di una fotografia doc (Daniel Schoenauer), capace di dipingere le sterminate pianure della Mongolia, l’intensità dei colori naturali del cielo, di contro a quelli delle rocce. Come nel precedente lavoro della Davaa, anche in quest’ultimo, fondamentale è l’uso della musica (straordinaria da meritarsi il Premio al Festival di San Sebastian), in presa diretta con la natura.
Da sfondo a tutte le immagini, la naturalezza e la semplicità della vita nomade della famiglia Batchuluun, alle prese ora con l’accensione del fuoco, poi con la preparazione dello yogurt (naturalmente naturale), delle paste al formaggio, dell’offerta al budda, oltre che allo smontaggio della capanna, raccontato in modo del tutto particolareggiato (le inquadratura delle staffe e dei montanti, la ghiera, le pelli che ricoprono, ecc). E’ un mondo fuori del tempo, una specie di non luogo in cui i pastori nomadi, in simbiosi con il ciclo delle stagioni, sperimentano la loro vita come un eterno peregrinare.
Tuttavia, anche qui comincia a farsi avvertire la presenza della modernità, autodistruttrice di quel mondo che fino ad allora sembrava ancora incontaminato. Infatti, la motocicletta di papà Batchuluun servirà per raggiungere la città, dove acquistare una torcia elettrica e una coppa in plastica potrà essere talmente suggestivo per l’intera famiglia, da rivelarli il tempo presente. Un tempo che comincia a divellere gli equilibri voluti da Dio, Allaha, Budda, Krishna, ecc. Tempi in cui gli uomini pongono le barriere ai loro simili, rischiando con le guerre la sopravvivenza, gareggiando alla pretesa di sostituirsi alla Potenza. Non così, invece, la regista intende farci lezione (meglio di qualsiasi altro antropologo) sulla vita in quella parte di mondo, in cui l’uomo anche lì è capace di abbandoni, a differenza di un cane, capace, nonostante tutto, di salvare la vita di un bimbo dagli avvoltoi: evidente metafora di un destino in cui il “si salvi chi può” è l’unica legge religiosa a cui obbedire, a prescindere dalle eventuali vite future.
La sequenza finale del film è emblematica e paradossale di un mondo in cui, nonostante le elezioni (sempre prossime), sponsorizzate dall’auto che va contro corrente la carovana della famiglia Batchuluun, l’uomo è quell’animale che non smetterà di voltarsi in dietro, ricordando come “era meglio quando si stava peggio”. In Mongolia, in Iraq, in Afghanistan…in Italia.
Giancarlo Visitilli
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