Regia di Amir Naderi vedi scheda film
Un ragazzino non udente alla ricerca di un suono, un nastro magnetico in cui è incisa la spiegazione della sua sordità. Amir Naderi, come in altre sue opere, impegna il suo personaggio in una caccia al tesoro paradossale, disperata, che va contro ogni logica, e verso un obiettivo improbabile, come può esserlo l’acqua nel deserto (“Acqua, vento, sabbia”), oppure la concentrazione nella folla (“Marathon”). Questo è un film ovattato, che ci frastorna con l’ossessiva ripetitività di certe azioni, a partire dalle innumerevoli scatole di audiocassette passate al setaccio: Jesse percorre le file dei loro dorsi con un dito, riassumendo in quell’operazione tutto il suo problematico rapporto con il mondo. Nella sua vita, la comunicazione è una continua scansione di righe di parole scritte, ed è un parlare con le mani, per articolare gesti, voltare una pagina del suo blocco note, impugnare una penna o avvertire le vibrazioni attraverso i polpastrelli. Il pensiero trasmesso è, così, necessariamente impreciso, mutilato, essenziale e privato di ogni emotività, come lo sono i titoli stenografici che, sulle custodie, indicano sommariamente i contenuti delle registrazioni. D’altra parte, toccare è la massima espressione dell’affettività e della vicinanza, quelle di cui il protagonista, orfano di entrambi i genitori, ha più che mai bisogno, senza contare che la prossimità fisica con le cose e le persone è quella di cui necessita per poter vedere, capire, leggere sulle labbra. Il disagio di Jesse, alla lunga, si fa rabbia - la stessa rabbia che assale Gretchen nel finale di “Marathon” - e la delusione induce a distruggere furiosamente l’oggetto del desiderio. E, come in questo e nell’altro film citato, ancora una volta, è un flusso d’acqua a preannunciare lo sfondamento dell’ultima barriera. Il film può risultare tedioso e martellante, certo, perché ci vuol rendere in tutto e per tutto partecipi dell’affanno del protagonista, e ci vuole, insieme a lui, confusi e disorientati. I suoni, che, in condizioni di normalità, sono lievi e gradevoli moti dell’aria, per Jesse prendono la forma di oggetti ingombranti e poco maneggevoli, che si accumulano creando disordine, e che poi, alla fine, si rivelano solo in minima parte decifrabili. “Sound barrier” è forse classificabile come un film sperimentale, tuttavia è perfettamente accessibile, perché, anziché arroccarsi nel simbolismo astratto o tuffarsi nel documentarismo spinto, riesce a conciliare, in modo incredibilmente semplice e naturale, il linguaggio metaforico con il più puro realismo. Davvero un piccolo, grande film.
Il film è incentrato su un soggetto molto limitato, che, però, viene ripreso da tutte le angolature e sviluppato con un’analiticità quasi maniacale. Originale, e finanche provocatoria, l’idea della ricerca di un suono, di qualcosa che la maggioranza è portata a considerare impalpabile e a dare per scontato; infatti sono i suoni, usualmente, a venirci incontro, magari procurandoci fastidio, e non certo noi a doverli rincorrere.
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