Regia di Anders Thomas Jensen vedi scheda film
Jensen, già autore di innumerevoli sceneggiature (per Bier, Kragh-Jacobsen e altri) approda al suo capolavoro come regista al terzo tentativo, dopo due prove che facevano ben sperare come Luci intermittenti (2000) e The green butchers (2003). Le mele di Adamo è un apologo intriso del più cinico e feroce sarcasmo sul rapporto di amore e odio che nutre il triangolo formato da religione-scienza-violenza. Se la religione equivale alla fede e quindi necessariamente è cieca, la scienza si basa sulla sola ragione e ha bisogno di prove concrete per andare avanti; così la violenza si colloca a metà strada, fra il credo assoluto di un neonazista convinto come il protagonista Adam e la sua necessità di dare una risposta a ogni domanda che gli si pone di fronte. Eppure la razionalità non gli basta. Agli altri due vertici del triangolo incontriamo rispettivamente il sacerdote Ivan e il medico dottor Kolberg, per un tris di protagonisti eccellenti – Ulrich Thomsen, Mads Mikkelsen, Ole Thestrup – già precedentemente sfruttati da Jensen (sia poi detto esplicitamente che Mikkelsen è qui semplicemente superbo). La parabola, così lontana da quelle evangeliche, di questo Adam picchiatore senza scrupoli tramutato in perfetto cristiano (protestante, data l’ambientazione nordica), gira tutta attorno alla torta di mele del titolo, fortunatamente intaccato dalla traduzione italiana; ma il finale è accomodante – certo più che lieto – soltanto in apparenza, poichè la ‘redenzione’ del peccatore è platealmente paragonata dal regista e sceneggiatore all’arrendersi del nostro subcosciente alle facili melodie radiofoniche ripetute all’eccesso. La religione si afferma negando la ragione, sopprimendo il libero arbitrio: la morale è decisamente caustica; e la vittoria di Ivan, che non solo sopravvive, ma trascina nel suo sbilenco mondo anche l’incorruttibile Adam, è profondamente mutilata da un ambiente circostante che quella stessa fede rinnega, quando non umilia: il pastore Tomas delle Luci d’inverno bergmaniane (e più in piccolo, ma sempre esemplare a suo modo, il don Giulio de La messa è finita morettiana) è un ricordo lontano, svanito, un’ombra o poco più. Perchè in questa cittadina e in questa realtà odierna la fede è praticamente un lusso, per chiunque, quando non un mero inganno: e ora si capisce perchè Adam la abbraccia nel finale, convinto in tale modo di riuscire finalmente a sopportare gli infiniti traumi che la vita dissemina sul cammino, suo e di chiunque altro. Certo, la tragicità degli eventi narrati è esagerata, volutamente, ed è l’unico modo per dare un senso a una serie di riflessioni di questa portata; colpisce innanzitutto del film la struttura drammatica pressochè perfetta: intasata di avvenimenti, a fronte di così pochi personaggi e così poco tempo in cui l’azione si sviluppa, eppure incontestabilmente verosimile dal primo all’ultimo fotogramma. Per quanto riguarda la ragione, il libero arbitrio umano, lo sberleffo di Jensen si fa persino palese nella scena dell’abbandono della professione da parte del dottor Kolberg, deluso da una morte mancata: nell’universo delle cifre i risultati devono tornare – per forza di cose, in un modo o nell’altro – tutti e non c’è alcun posto per i miracoli. E neppure si può dire che ne esca sconfitta la forza bruta, rappresentata non solo da Adam, ma anche da Khalid, che sa usare la pistola meglio del neonazista e con questa dote si guadagna la sua insospettabile simpatia; la storia di Khalid si conclude gloriosamente, sebbene si possa immaginare che il suo futuro, fatto di rapine e probabilmente atti terroristici, non sarà poi così roseo. Un ultimo accenno va speso per la maniera curiosa – geniale? – in cui Jensen liquida l’argomento ‘comunicazione’ in questo film. All’inizio della storia i personaggi essenzialmente non stanno comunicando: ognuno dice la sua, le parole e soprattutto le smentite non contano nulla, neppure di fronte ai fatti concreti, e i difettucci grandi o piccoli di ciascuno permangono (Gunnar continua a rubacchiare, Khalid a vivere una seconda vita da delinquentello); è un parlare fra sordi. Adam trova quindi il metodo di comunicare con ciascuno di essi, Ivan incluso, adottando i canoni dialettici di ognuno: studia la Bibbia regalatagli da Ivan, partecipa alla rapina-farsa di Khalid, ignora la cleptomania di Gunnar; a quel punto la violenza non ha più senso di esistere per lui, e questo è l’unico sincero cambiamento che Adam saprà fare: prendere coscienza dell’inutilità (della stupidità e della meschinità, per meglio dire) della sopraffazione fisica. Intensa colonna sonora, opera di Jeppe Kaas (già autore delle musiche nei due precedenti lavori di Jensen). 10/10.
Il nerboruto neonazista Adam sconta la sua pena aiutando una piccola parrocchia. Dalla violenza si convertirà alla ragione, con un percorso davvero particolare.
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