Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
Come il Moretti de Il caimano, Marco Bellocchio con Il regista di matrimoni celebra un gran funerale del cinema (che fu). Anche se il (psico)analitico autore di L’ora di religione e I pugni in tasca prende le distanze dal regista di Palombella rossa («Cupa e disperata la vita secondo lui... che realizza film dove c’è il primato della parola... io cerco un’altra strada...»), l’incipit della sua ultima fatica è intinto in un color verde marcio, da cadaveri eccellenti. E guarda caso l’ambientazione è uno studio cinetelevisivo soprannominato “l’acquario”, dove si stanno effettuando prove di casting per un’ennesima versione de I promessi sposi. L’anticamera di un film diventa così l’obitorio di un’idea triturata, che avrebbe bisogno di altro sole, di altra luce. E infatti. Uno stacco all’ultimo Godard (la prima mezz’ora evoca, e non poco, Prénom: Carmen) e siamo in Sicilia, a Cefalù, dove il regista Franco Elica (uno spaesato Castellitto) si è rifugiato un po’ per metabolizzare le nozze squisitamente cattoliche della figlia e un po’ per riordinare gli sguardi e le ottiche, il respiro affannoso della creatività e il senso stesso del proprio percorso. Con la telecamera digitale di un dilettante quasi allo sbaraglio che si professa autore di filmini matrimoniali, riuscirà forse a ritrovare un paio di indicazioni, di fitte, persino l’amore se non fosse che la principessa di cui s’invaghisce (un’icastica Donatella Finocchiaro) è figlia di una storia anticamente scontrosa con il vento della contemporaneità. Al di là di qualche dialogo faticoso e zoppicante e del personaggio di un altro regista, Smamma (interpretato tuttavia magistralmente da Gianni Cavina), che si finge morto per aspirare a vincere un David che poi scopriremo essere di Michelangelo, Bellocchio realizza tra il serio e il faceto, tra la tragedia di uomini ridicoli e la fiaba dal sapore viscontiano (anche Luchino aleggia su molti angoli del film) un remake godardiano de I promessi sposi, con tanto di icone del cinema francese (Sami Frey), di dialoghi che paiono arrivare dritti dritti da talune “lezioni” del mitico Gianluca («La cosa importante è il film, non il supporto... Il cinema è il montaggio... Io mi rivolgo all’artista che vede ciò che i comuni mortali non vedono...», e di uno sperimentalismo che imbriglia chi guarda, lasciandolo solo con i suoi occhi, disperato e allegro nel trovarsi di fronte a un brogliaccio d’autore che si compie nell’istante del suo disfacimento. Secondo Bellocchio, il nuovo cinema. Probabilmente.
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