Regia di Marco Bellocchio vedi scheda film
“Ritiriamoci nel silenzio per meditare sulle parole” è la prima frase che si pronuncia nel film. Una sorta di prefazione-invito: al Cinema, innanzitutto, ai componenti della famiglia tradizionale poi. A se stessi, alla fine.
In continuità con L’ora di religione, uno dei migliori registi “alieni” italiani, il piacentino Marco Bellocchio, quello del “primato dell’immagine”, ci riporta nel suo mondo, questa volta abitato da Franco Elica, un famoso regista in piena crisi umana e professionale. Sua figlia si sposa in chiesa, evento che lo infastidisce non poco. Inoltre, sta per preparare l’ennesima versione filmica dei Promessi Sposi. In preda ad un’evidente angoscia esistenziale, fugge in Sicilia, dove conosce un regista di matrimoni con cui fa amicizia. Dopo poco, nel paese dove si è rifugiato si viene a sapere della sua presenza, così un nobile del luogo lo ingaggia per girare il film del matrimonio della figlia. Quest’ultima è una bella ragazza, triste e malinconica, che farà perdere la testa proprio a Franco Elica.
Avendo un’idea di cinema molto precisa, di pari a quella delle altre arti visive del Novecento, Bellocchio lavora per sottrazione: libera il cinema dal predominio della parola, e quindi del racconto, prediligendo l’immagine, mai scontata e fine a sé stessa. Perciò Il regista di matrimoni può essere considerato un “inno alla libertà espressiva”. Un’espressività che è essenziale, minimalista, ridotta all’osso, ma assolutamente psicanalitica. Tant’è che lo stesso viaggio che Franco Elica compie è coadiuvato dalla misteriosa presenza di altrettanti personaggi fuori dal comune, che insieme ai luoghi (una Sicilia arcaica e magica, alla maniera di Visconti), ben definiscono il viaggio interiore che il regista di matrimoni compie. Non è difficile poter accostare Entr’acte di René Claire a questo lavoro di Bellocchio, che potremmo definire per questo dadaista.
Difficile definirne il genere, perché nel dramma c’è un continuo rimando al noir, all’onirismo, al sogno, all’immaginazione, all’introspezione e alla raffigurazione surreale. Bellocchio riesce ad intrecciare e sviluppare tre storie: quella individuale del regista Franco Elica, quella del matrimonio che il protagonista deve riprendere e infine quella del rapporto tra questa figura emblematica di artista e l’ordine costituito, in quanto consuetudine, “così fan tutti”, tradizione (nella peggior accezione del termine). Il matrimonio religioso, in tal senso, è visto come una sorta di meccanismo di controllo delle coscienze e dei cervelli. La religione risulta (più di ne L’ora di religione) come ancora l’ultimo potere temporale costituito, rigido, inquietante (nonostante nella strepitosa scena iniziale il coro inneggi battimani a ritmo di “Osanna”), tanto da volergli dare fuoco (una gigantesca croce di ferro prende fuoco nel buio).
Ma Il regista di matrimoni è anche un film sul cinema, sulla morte del cinema, specie di quello italiano, che si adagia solo sui morti (“C’è solo un modo per vincere: morire”). L’esempio è quello del collega regista di Elica, che, ossessionato dai premi, si finge morto (“In Italia sono i morti che comandano”) per ottenere il suo agognato David di Michelangelo. Si tratta di premi, che come nell’Italia-laurificio (chi non prende 110 e lode è ormai un caso raro nel nostro paese), sono assegnati a “cani e porci”, perciò Bellocchio ci tiene a chiarire, per merito di una delle invitate al matrimonio: “Grazie a noi che lavoriamo da mattina a sera, lei può fare l’artista”. Qui é messa in discussione la figura del regista-artista (lavoratore?), che “ormai non sa raccontare più per immagini”, che “preferisce il supporto” al film, alla storia in sé.
Per fortuna, comunque non si tratta del caso di Bellocchio, che grazie anche ad attori straordinari, riesce a dare il meglio di sé: vere e proprie lezioni di Cinema. Il sodalizio Castellitto-Bellocchio è veramente salutare per entrambi, ma anche Angela Finocchiaro non si smentisce nella sua bravura, grazie ad una recitazione assolutamente naturale e fuori da certi stereotipi accademici italiani.
Per tutto ciò assegneremmo a Bellocchio ogni tipo di David, purchè sia un riconoscimento a quell’arte di raccontare che predilige lo sguardo alla parola, il silenzio al “rumore” di tanto cinema mediocre che ci prefigura tempi bui, in cui forse non potremmo dire più “Buongiorno, notte”. Magari nel buio di una sala.
Giancarlo Visitilli
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta