Regia di Richard Fleischer vedi scheda film
Forse il film più divisivo, scandaloso ed incandescente di Richard Fleischer. L’approccio al tema della schiavitù, a partire dall’omonimo romanzo di Kyle Onstott e dalla pièce di Jack Kirkland, sceneggiato da Normal Wexler (già due nomination all’Oscar per gli script di “La guerra del cittadino Joe” e “Serpico”, poi firmerà il copione anche de “La febbre del sabato sera”) è diretto, crudo, senza sconti e senza fronzoli. Non esente da un inevitabile sensazionalismo ma in ogni caso quanto di più lontano possibile dall’oggi imperante e deleterio politicamente corretto. Certo a volte serpeggia la sensazione che Fleischer un po' ci sguazzi nella materia, ma il suo obiettivo è forte e chiaro: mostrare le atrocità e le barbarie della schiavitù, di un secolare sistema di repressione e sfruttamento con i suoi devastanti abusi, spiattellandoli in faccia, senza troppi giri di parole, inutili accomodamenti o facili romanticismi, anticipando di un paio di anni il successo della fortunata serie tv “Radici”. In questo senso il personaggio del vecchio Warren Maxwell, il volgare e gretto latifondista, proprietario della piantagione Falconhurst, interpretato da un magistrale James Mason (già con il regista nel classico “20000 leghe sotto i mari”, ma il ruolo era stato primo offerto a Charlton Heston) è esemplare. Per lui “la schiavitù è stata una cosa voluta da Dio, è stato Lui ad imporla” e liquida gli abolizionisti come dei fastidiosi “piantagrane”. Maxwell sostiene sprezzante che “un negro non è sensibile ai dolori corporali come un uomo bianco” e si oppone fermamente al fatto che gli schiavi imparino a leggere o si dedichino alla religione, perché “più religiosi sono e più arroganti diventano e più difficili da tenere a freno.” E’ fermamente convinto inoltre del fatto che “se questi neri si mettono in testa di avere un’anima, cominceranno a credere che valgono quanto i bianchi!” Per curare i suoi reumatismi si affida a metodi ben poco ortodossi come appoggiare i piedi sulla pancia nuda di un bimbo di colore, si sorprende quando una sua schiava, che accusa forti dolori allo stomaco, viene dichiarata ancora vergine (“Quando avevo la tua età, Hammond, non c’era una negra che fosse ancora vergine a 14 anni.” rivela sprezzante ed orgoglioso al figlio), la sua preoccupazione principale è trovare un mandingo che ingravidi le sue schiave al fine di produrre ulteriori Mandingo da vendere a prezzi più alti, poco importa se poi ci siano accoppiamenti tra parenti, perché “avvengono incesti tra gli animali, ne possono fare anche i negri.”
Quando il figlio Hammond acquista ad una fiera il mandingo Mede, Maxwell gli fa fare bagni in acqua bollente e salata (letteralmente bollito in un pentolone) per indurire la sua pelle e farne una implacabile “bestia da combattimento”. Hammond, rimasto zoppo da un piede all’età di 6 anni, in seguito alla caduta da un pony, poco dopo aver perso la mamma, ha una sensibilità diversa dal padre che infatti lo invita a levarsi dalla testa “tutti questi scrupoli.” E’ cresciuto tra i neri, inizialmente rifugge l’idea del matrimonio (“Non saprei neanche come comportarmi con una donna bianca.”) dal momento che le sue esperienze sessuali sono state solo con schiave e prostitute, non riesce ad assistere alle violente fustigate inflitte allo schiavo ribelle, si irrita e si allontana quasi infastidito quando il cugino Charles frusta sulla schiena con la cintura una ragazza di colore che gli è stata offerta per la notte perché “la preparo per la monta.” Su pressione del padre, che desidera un erede maschio che possa continuare la sua dinastia, Hammond accetta di corteggiare la cugina Blanche, a sua volta disposta a sposarsi con lui per sfuggire a una famiglia soffocante. Il matrimonio però si rivela ben presto infelice ed insoddisfacente, anche perché la prima notte di nozze Hammond scopre che la moglie non è arrivata vergine al matrimonio. Hammond finisce così con il preferire alla moglie la schiava di letto Ellen. La situazione precipita non appena la sfrontata Blanche si fa mettere incinta da Mede e partorisce un bambino di colore.
Fleischer, che pare abbia rifiutato più volte la proposta di De Laurentiis, con cui aveva già realizzato il notevole peplum “Barabba”, accettando alla sola condizione di poter essere il più onesto possibile (in un’intervista ha parlato di un primo montaggio di quasi 4 ore, che giudicava ancora più fedele alle sue intenzioni), calca la mano, sfiora in più frangenti la caricatura, accentua senza freni sia la fatiscenza e la putrefazione degli ambienti, sottolineata altresì dalla fotografia sgranata del grande Richard H. Kline, sia la nociva degenerazione e la corruzione malata e diffusa delle relazioni (dis)umane, non teme l’orrore indicibile che racconta, osa l’inosabile, spingendosi a tratti ben oltre i limiti dell’immaginabile, ma non dà mai l’impressone di perdere il controllo di un film che non ha paura di nulla e si muove, disinvolto, sgradevole e spudorato, tra dramma storico, soap, melo e exploitation, culminando in un finale pazzesco a cui quasi non si riesce a credere. L’ultima travolgente ora di film inanella un’impressionante serie di momenti incredibili, esasperati e volutamente sopra le righe da lasciare a bocca aperta. Da una ubriaca e instabile Blanche (il cui odio e follia nascono dal disprezzo e dalla violenza di cui lei stessa è stata vittima, perché anche la condizione della donna negli stati del Sud dell’Ottocento era tutt’altro che romantica e idilliaca) che frusta, con una rabbia inaudita e sadica, Ellen, al barbaro e selvaggio combattimento tra schiavi letteralmente all’ultimo morso davanti ad un pubblico di bianchi che aizza, esaltato e famelico, i duellanti.
Dalla seduzione di Mede da parte di una Blanche voluttuosa e perversa, al parto della donna con la successiva scoperta che il bimbo che portava in grembo è di colore (con la cinepresa che si sofferma implacabile sul volto pietrificato ed incredulo di Hammond, anticipando la sua “velenosa” vendetta), passando per il devastante intervento “riparatore” del medico sul neonato, fino alla furiosa e delirante resa dei conti conclusiva, in cui Hammond, rivelando di essere il più vile ed abietto di tutti, raggiunge le vette di atroce e disumana crudeltà dell’odioso padre.
“Prodotto da Dino De Laurentiis, fu indicato da Andy Warhol come il suo prediletto film dell’anno. E’ un torbido e greve melodramma degli anni ’50, ideologicamente aggiornato al liberalismo antirazzista dei ’60 e in linea con la permissività sessuale dei ’70. Progressista nei contenuti, reazionario nella forma”. (Il Morandini) Prendere o lasciare ma questo è un cinema radicale, sulfureo e maledetto, che oggi nessuno avrebbe (più) il coraggio di realizzare. Chapeau. “L’ultimo grande film poliziesco di Fleischer, in cui il ruolo dell’assassino senza volto è interpretato da un intero sistema sociale.” (Dave Kehr) Da alcuni definito l’antitesi trash di “Via col vento”, titolo richiamato altresì nella locandina originale del film. Fatto a pezzi e completamente frainteso dalla critica dell’epoca, fu comunque un notevole successo di pubblico, anche in Italia. “Django Unchained” di Tarantino gli deve (quasi) tutto. Con un seguito, decisamente più debole ma non privo di interesse: “Drum, l’ultimo mandingo” dove ritornerà il protagonista Ken Norton, sia pure in un ruolo diverso, mentre il personaggio interpretato da Perry King sarà affidato a Warren Oates.
Voto: 8
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