Regia di Sergio Corbucci vedi scheda film
Le vie infinite della giustizia.
Nel bianco innevato del selvaggio West il sangue spicca di più come dettaglio espressionistico e disarmonico, forte di una violenza insopprimibile che è diventata legge di natura. Se Klaus Kinski e Jean-Louis Trintignant all’inizio si rischia di confonderli, imbacuccati come sono entrambi dentro quei giubbottoni pesanti, non è un caso, ed è una piccola luccicante briciola di questo diamante che è Il grande silenzio di Sergio Corbucci. Meno grezzo di altri spaghetti-western, probabilmente dal respiro più classico, ma comunque incapace di rinunciare a zoomate esagerate e colori saturi e “impuri”, questo grande resoconto della legge del più forte brilla di luce propria per la grandiosa tensione che riesce a insinuare nello spettatore e per la spettacolare bravura di tutto il cast, che si impegna più che può a rendere avvincente la triste cronaca di una sconfitta. Crudele e disincantato, particolarmente originale nella scelta della trama e del finale disilluso, Il grande silenzio calpesta ripetutamente miti, leggende e ideali di coraggio e lealtà, e constata con divertita freddezza l’eccessiva debolezza della bontà. Il manicheismo è infatti un espediente meno ingenuo di quanto appaia: rivela la grande capriola che il western fa nelle mani di Corbucci, sostituendo coloro che solitamente sono buoni (misteriosi cacciatori di taglie) nei cattivi e viceversa, con la conseguenza immediata di coinvolgere più di quanto uno potrebbe aspettarsi, tanto che verrebbe da consigliare il film anche a chi non adora il genere. Forte anche di una sceneggiatura tutt’altro che tediosa, risulta particolarmente interessante la dinamica emozionale con cui viene rappresentato ogni singolo personaggio con particolare attenzione al suo passato e a quanto questo possa avere un reale effetto nella trama. E inutile dire che Trintignant, anche in un contesto che non è suo, fa faville con i suoi sguardi e il suo fascino imperturbabile. Benché proprio la storia d’amore con la McGee non sia proprio delle più avvincenti.
Le didascalie finali alludono a una certa forzata indignazione cui viene invitato lo spettatore, e sembra contestualizzare fin troppo l’intera pellicola, ma la realtà è che Il grande silenzio ha un respiro universale e unico nel suo genere, spiazzante e travolgente, lontanuccio dai livelli miracolosi di Quien Sabe? ma superiore ad altri come Tepepa. Diciamo che orientativamente siamo dalle parti del mitico Django, forse con un po’ meno sangue ma con più disillusa cattiveria.
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