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Il grande silenzio

Regia di Sergio Corbucci vedi scheda film

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La recensione su Il grande silenzio

di scapigliato
8 stelle

Django entrava in scena a piedi, camminando nel fango, e trascinandosi una bara. Qui, il grande Silenzio entra in scena a cavallo, ma avvolto dalla neve invece che dalle dune di sabbia, ha una mauser alla James Bond, vecchia passione del di lui regista, ed è imbacuccato fino al collo invece che essere mezzo nudo come tanti pistoleros di frontiera. Gli incit di due dei suoi capolavori più conosciuti anticipano senza ombra di dubbio lo sviluppo autoriale che Sergio Corbucci ha voluto per i suoi western. Un paesaggio rarefatto, crepuscolare, sordo e muto, onirico e a tratti surreale tanto da non sembrarci di questo mondo. Il regista ci porta lentamente (altro elemento, la lentezza, che sottolinea la tragedia che sta arrivando implacabile) in un altrove in cui regna sovrana una legge, quella del più forte, come dice Tigrero, che s'alimenta però delle istituzioni. Il feroce bounty killer Tigrero uccide per legge, perchè quei banditi sono una minaccia per l'ordine morale e costituito, e sarà emblematico che proprio Tigrero dica che l'unica legge valida è quella del più forte. Questo ci permette di credere all'equazione che vede la legge dell'ordine istituzionale essere allora quella criminale della repressione, quella del più forte e non del più giusto, del più umano. Un territorio, quello di Snow Hill, che crogiola insieme banditi innocenti e banditi criminali, ma tutti comunque banditi, non c'è spazio per la civiltà, per la vera legge. Anzi, il film sembrerebbe suggerirci che purtroppo ogni legge, benchè nasca con propositi democratici, cadrà sempre nel paradosso. Una legge che per essere tale deve fondarsi sul rigore, sulla forza di pochi, sull'ordine. Silenzio, invece, porta con sè, forse proprio nel suo silenzio, la rabbia e l'impotenza davanti a questa terra di nessuno, che è poi il nostro mondo. Un mondo freddo, rarefatto, sterile, tonfo, e senza speranze di fioritura, un mondo che forse non ci appartiene. Emblematico il finale che a differenza di quello alternativo, volutamente girato con pochissimi fotogrammi proprio per non renderlo montabile, ci mostra tutta l'impotenza dell'eroe, non solo muto, e menomato nelle mani, ma addirittura prostrato, in ginocchio, impotente nello sguardo come nel corpo davanti all'ineluttabilità di chi tiene la pistola dalla parte del calcio: la legge. Giustificata o no, la legge ne ammazza più dei criminali, anche se solamente nell'animo, ma ne ammazza molti di più. E in uno scenario triste, da tragedia annunciata, quale è quella di Silenzio e Pauline, è impossibile non leggervi l'amara ma lucida rassegnazione dell'uomo che cade davanti al sistema. Un sistema ingiusto, feroce, arrampicante, messo in mano ad avidi speculatori come Pollycut, o allo spietato Tigrero.
Infatti il mitico Kinski, in un ruolo decisamente appropriato alle sue fattezze serafiche, che in realtà mascherano violenza e cattiveria, dà vita ad un personaggio mite, saudente, un vero e proprio angelo della morte, la cui ferocia non esplode mai, come in tante altre memorabili interpretazioni, ma è pacata, tenuta a rigore da quella Legge per la quale lavora. Una freddezza e un'abiezione degne di un villain antologico come appunto il Tigrero che ci regala.
L'efficacia del film è quindi ripartita in parti eque tra regia, cast tecnico e attori. Infatti la caratterizzazione fumettistica dei personaggi, immersi in un altrettanto caratterizzato scenario, lontano anni luce da quello tipico western, è un chiaro segnale di originalità e innovazione all'interno di un genere che in quegli anni veniva risematizzato da veri e propri geni italiani.
Un capolavoro di amarezza, di modernità, di estetica algida ma penetrante. Un western atipico, con buone dosi di sadismo e realismo, capace di relegare nuovamente il western classico in angoli bui e superati.

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