Regia di Sergio Corbucci vedi scheda film
Il bianco accecante a dominare uno scenario di truce violenza, perché il colore della purezza e dell’innocenza è solo un bluff che nasconde tonalità più virulente, il rosso vermiglio del sangue che scorre in rivoli sottili, il nero del lutto, l’azzurro malato dei gelidi occhi della morte.
Siamo nel 1968 e mentre Sergio Leone (indiscusso padre/padrone degli Spaghetti-western) usciva con il suo film più epico, allo stesso tempo elogio supremo e malinconico canto del cigno, quel C’era una volta il west che nella sua essenza internazionale toccava vette irraggiungibili per qualsiasi emulatore, un altro Sergio (Corbucci), abile mestierante e acuto osservatore si cimentava con quella che si potrebbe definire la sua opera migliore, o perlomeno tra le più riuscite di una filmografia variegata ma dalla qualità altalenante.
Il Grande Silenzio viene oggi considerato fra le pellicole più meritorie di un sotto-genere tutto made in Italy, un filone cinematografico che a cavallo tra gli anni 60 e 70 ha vissuto un clamoroso e incontrollato fascino popolare, furono in molti a sperare nel facile successo, a salire sul carro del vincitore, ma tanti proponevano banali soluzioni narrative o peggio ancora sbiaditi ricalchi, molti i film inutili e dalla qualità modesta.
Corbucci, che già aveva fatto centro qualche anno prima con il mitco Django, ci riprova e vince di nuovo, immaginandolo impegnato in una sordida partita a poker all’interno di un sudicio saloon la fortuna è ancora dalla sua, una mano misteriosa gli serve quattro assi che da soli bastano e avanzano per chiudere la partita vincente.
E vediamole queste carte vincenti:
La gelida ambientazione montana, un microcosmo quasi alieno dove far nascere l’immaginaria cittadina di Snow Hill, uno sputo congelato di paese, una ghiacciaia dove i bounty killer di tutto lo Stato aspettano di intascare i soldi di omicidi legalizzati, la neve è ovunque, fuori e dentro i personaggi, a segnare gli ultimi battiti di una moralità inesistente, di una giustizia sconfitta dal dio denaro, di un umanità meschina e infame.
Jean-Louis Trintignant con la sua faccia da pistolero buono, da muto cavaliere errante, infallibile con la sua Mauser 7.63, un solitario che non spara mai per primo ma che uccide con la freddezza di un alito di morte, lo chiamano Silenzio perchè con la gola tagliata non può parlare, ma è chiaro fin dal principio che la sua non è la classica figura dell’eroe senza macchia, non è un personaggio postivo che porta giustizia, è un uomo che combatte la sua guerra personale, che uccide altri uomini non (solo) per denaro ma per vendetta.
Di Klaus Kinski basterebbe il nome, o meglio il suo volto, la sua maschera da incubo che sprigiona puzza di zolfo ad ogni inquadratura, interpreta il bounty killer Tigrero, che sotterra cadaveri sotto la neve per mantenerli freschi ed integri, per avere il tempo di segnare (da buon contabile) tutte le X sul suo taccuino di morte, poi intasca i soldi delle taglie e ne attende altri, aspetta che i poveracci scappati sulle montagne scendano finalmente a valle, ci sono tante vite da prendere e tanti soldi da intascare…se nessuno si mette di mezzo.
Ma qualcuno di mezzo alla fine ci si mette sempre, e se il suo nome è Silenzio bisogna giocare d'astuzia, non cadere nelle provocazioni, non estrarre per primo perchè in un duello regolare tra i due volti di una medaglia molto simile l’esito non può che essere incerto.
E così arriviamo all’ultima carta vincente giocata da Sergio Corbucci, il finale anomalo e controcorrente, quel finale che i produttori dell’Adelphia volevano cambiare perché nessuno ama vedere i buoni perdere, per cui Corbucci fu costretto a girare una conclusione “alternativa” dove tutto si chiude nel più scontato dei modi, il regista romano ripesca un personaggio dato per morto (lo sceriffo) che arriva giusto in tempo per aiutare Silenzio a fare piazza pulita.
Ma l’happy end voluto dalla produzione è una stonatura (si trova su Youtube per chi è interessato), un’incongruenza colossale che alla fine viene rigettata persino dal richiedente, oltre ad essere girato in maniera sbrigativa e senza impegno si trattava di una sequenza semplicemente non conforme a quanto visto fino a quel momento.
Perché tra i maggiori pregi del film di Corbucci c’è la spudorata esposizioni di un nichilismo senza speranza, di una morte sempre e comunque inevitabile, ed è fin troppo facile sostenere che il successo del film vada ricercato proprio nel finale cattivo, crudele, nel coraggo di mostrare la sconfitta dei giusti e il trionfo del vecchio demonio.
Il grande silenzio al tempo della sua uscita non ottenne un grande successo, in Italia fu persino vietato ai minori di 18 anni, pregiudicando di fatto un buon esito al botteghino, negli anni successivi come spesso succede fu ampiamente rivalutato (anche dalla critica) e oggi viene considerato uno dei migliori esempi di Spaghetti-western, degno di stare al fianco di film fondamenatali come la Trilogia del dollaro firmata Leone, con la quale condivide la presenza delle fondamentali musiche di Ennio Morricone e di quel grande caratterista che era Mario Brega.
In Francia invece il consenso fu immediato, di certo la presenza di Trintignant contribuì molto ma su certe cose i francesi hanno l’occhio lungo e capirono subito lo spessore del film di Corbucci, la sua anima profondamente nera, il pessimismo di un contesto narrativo che in primo piano metteva solo personaggi negativi o profondamente ambigui, i buoni sono figure marginali e sofferte, buone per alimentare qualche siparietto comico (sempre lo sceriffo interpretato da Frank Wolff) o per dare spazio all’immancabile e tragica vicenda sentimentale (bellissima la quasi esordiente Vonetta McGee).
Da vecchio appassionato della nona arte e del fumetto Franco/Belga non posso infine non citare la mitica serie firmata dal grande Yves Swolfs, Durango esce oltralpe in prima edizione nel 1981 ed è una serie western dichiaratamente ispirata al film di Corbucci, e più in generale al climax classico dei western all’italiana, il personaggio principale è un pistolero di poche parole chiamato Il pacificatore e la sua arma è proprio una Mauser 7.63, inoltre in uno dei primi volumi (la serie ne conta 16) si fa preciso riferimento a questa arma e si dice che i precedenti proprietari furono un pistolero muto (Silenzio) e un bounty killer (Tigrero).
Se amate questo film e non disdegnate il buon fumetto Durango è un appuntamento da non perdere, anche se qui in Italia è stato pubblicato in formato Bonellide e in B/N, il che non rende giustizia ai bellissimi disegni di Swolfs.
Voto: 8
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