Regia di John Ford vedi scheda film
Un gruppo di Cheyennes confinati in una riserva nell'Oklahoma, privi di cibo e decimati dalle malattie, e soprattutto stanchi delle promesse non mantenute dal governo, decidono di lasciare la riserva e tornare nelle loro terre dello Yellowstone. Sulle loro tracce si mette il capitano Archer (Richard Widmark), al comando di uno squadrone di cavalleria.
L'ultimo western di John Ford contiene in nuce tutti gli elementi archetipici del genere: eppure non è un western classico nel senso stretto del termine. È una pellicola invece molto singolare, e adesso vedremo perché.
Sappiamo bene che John Ford, fino a quel momento almeno, non era certo stato un "paladino degli indiani"; il fatto che egli abbia realizzato una pellicola come "Il grande sentiero", in cui opera un radicale ribaltamento della prospettiva, aderendo totalmente e senza riserve alla causa degli indiani, è un evento inedito e sorprendente. I pellerossa infatti non sono più rappresentati come dei selvaggi che assaltano le diligenze ("Ombre rosse"), sanguinari sterminatori di poveri coloni indifesi, comprese donne e bambini ("Sentieri selvaggi"), ma viene loro restituita dignità e umanità, facendone i reali protagonisti della pellicola, e mostrandoli come un popolo oppresso, privato della propria terra e della libertà, stanchi delle menzogne dei bianchi che non mantengono le promesse fatte. Ciò non comporta comunque uno snaturamento della propria poetica da parte del regista: Ford non rinuncia né alle parentesi leggere tipiche del suo cinema, né all'elogio dei valori a lui cari, quali ad esempio le virtù militari e il cameratismo. Ma i tempi de "I cavalieri del Nord-Ovest" sono lontani, e non c'è più spazio per l'epica e per l'esaltazione della cavalleria americana. Rimane invece un dolente e diffuso pessimismo che rifiuta facili soluzioni (nonostante il lieto fine, che non cancella le sofferenze e le peregrinazioni sofferte dagli indiani durante tutto l'arco della vicenda).
Dei difetti sparsi qua e là nella pellicola ci sono, e alle volte anche abbastanza vistosi, come ad esempio la sequenza "umoristica" che ha per protagonista James Stewart, fuori luogo, tirata per le lunghe e poco amalgamata con il resto del film. Ma non sono difetti tali da giustificare le molte critiche che la pellicola ha ricevuto. La tenuta narrativa infatti regge nonostante la durata, e l'architettura registica di Ford è sempre magistrale, sia nella ripresa dei grandi spazi che nelle scene di battaglia: una lode particolare per la sequenza dello scontro finale a Fort Robinson, che si apre a squarci quasi visionari.
Il cast è ricco, anche se non sempre gestito al meglio: alcuni attori sono sprecati e appaiono per pochi minuti (James Stewart, Arthur Kennedy, John Carradine), mentre altri potevano essere valorizzati meglio (Richard Widmark, Sal Mineo). Incisivi invece Gilbert Roland, Karl Malden ed Edward G. Robinson. Nei ruoli contorno si possono notare invece molti noti caratteristi fordiani: Patrick Wayne (figlio di John), Willis Bouchey, George O'Brien, Harry Carey Jr., Ben Johnson, etc..
Ottima la fotografia del veterano William Clothier, già sentite le musiche di Alex North. Per quanto non possa essere annoverato tra i capolavori di John Ford, "Il grande sentiero" rimane un ottimo film, originale e indubbiamente sincero nel suo messaggio "revisionista" e pacifista.
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Penso che siamo abbastanza d'accordo, e mi fa piacere che ti sia piaciuto questo film che è una specie di testamento.
Mi ero lasciato influenzare dalle critiche (senza aver visto il film), ma grazie a te ho avuto una piacevole sorpresa. "Il grande sentiero" mi è proprio piaciuto, e mi stupisco delle pesanti critiche che ha ricevuto per quanto riguarda la tenuta narrativa; a me è sembrato un western degno del suo grande autore.
Infatti. Anche a me è capitato di indugiare a guardare un film di un autore che apprezzo a causa di certi criticoni che lo stroncavano, e poi di non rimpiangere la decisione di guardarlo comunque.
Non bisogna lasciarsi influenzare
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