Regia di Lamberto Lambertini vedi scheda film
"Fuoco su di me": come sfuggire alla suggestione di tale titolo? Il mio richiamo personale è evidentemente lynchiano e forse per questo l'attesa è per un lavoro che scavi nei meandri metafisici e psicologico dell'animo umano. La locandina però, altrettanto bella, con quella figura riconoscibile e pur ingannevole nell'ombra di un tramonto rosso, mi rimette subito in carreggiata: Lambertini torna, da napoletano, a Napoli. Subito dopo quell' altra napoletana con "Il resto di niente": non solo le due opere risultano consequenziali nella produzione e distribuzione ma anche nella materia, se la prima narra storicamente l'evoluzione degli avvenimenti delka seconda (ovviamente con un punto di vista anche stilistico molto diverso, sebbene alcune caratteristiche comuni, ancora, non possono passare inosservate. Non ultimo il gusto "pittorico" che la biografia dei due autori conferma in pieno) . Il cerchio si potrebbe idealmente chiudere retrocedendo di qualche anno e risalendo un po' più a nord per l'altisonante e futile "Ferdinando e Carolina" della romana Wertmuller: una sorta di fantasiosa rielaborazione dei contenuti a monte e a valle delle due "rivoluzioni": quell'unica effettiva del 1799-1800 e quella murattiana del 1808-1815.
Se "Il resto di niente" (chiarisco subito: da me visionato solo in sequenze sparse in rete) si colloca prudentemente in quella nicchia di mercato che potremmo definire di cinema "colto", abdicando alla condivisione del messaggio con un pubblico più vasto ma garantendosi una più facile comprensione dei meccanismi storici e storiografici basilari; "Fuoco su di me" ambisce invece al più difficile bersaglio della "popolarità" fine a se stessa, senza intento pedagogico o didascalico.
Lo fa mettendo in campo due armi tanto potenti quanto pericolose: la "televisività", brutto sostantivo da me coniato sul momento il cui significato mi pare però immediato e il "divismo" cioè l'assegnazione del protagonista (o co-protagonista?) ad un attore di sostanza e celebrità come Omar Sharif.
Per quanto riguarda la prima, più ancora che a colori ed inquadrature (motivate anche dal budget, non basso ma neppure alto soprattutto per un film in costume) partecipa la scelta funesta della colonna sonora firmata da Savio Riccardi. Il gusto da melodramma pop alla "Elisa di Rivombrosa" (il compositore è lo stesso d'altronde) è dietro l'angolo. Meglio avrebbe fatto a restare nel prudente utilizzo della musica classica se non nel silenzio.
Sul cast mi è impossibile non infierire: il dislivello di recitazione fra un professionista come Sharif (e pure Donadoni tutto sommato) e la spalla Varrese e enorme. Per ovviare, pare che il primo giochi al ribasso: il principe Nicola ne viene fuori inconsistente e sciocco. Ma pure nella disgrazia, il solo fascino visivo naturale del vecchio Sharif che riempie la macchina da presa fa sembrare il crollario misero e minuto e pure il doppiaggio con la voce originale dell'attore, con ovvi problemi di pronuncia, non inficia corposità e lentezza del suo timbro inconfondibile. Varrese è, in un solo aggettivo, sbagliato. In tutti i sensi: già visto troppe volte in lavori troppo inutili, presta la sua faccia statica ad un personaggio che dovrebbe essere di cuore e di testa e che invece non è nemmeno di fisico. Zampetta qua e là, leggiadro e leggero con, dalla sua, un colore sonoro acuto e sgradevole e una dizione impostata tendente all'inflessione romanesca. Assolviamo pure Zoltan Ratoti ed il suo macchinoso e fisso Gioacchino Murat (che può essere pure veritiero! In fondo, trattasi di uomo d'armi e politica) e così pure Sonali Kulkarni, una Graziella quantomeno espressiva e che risulta incolpevole dinnanzi alla nefandezza delle battute da recitare; promuoviamo Maurizio Donadoni - Aymon e Antonella Stefanucci la governante, ma l'inadeguatezza di Varrese e la sua impossibilità di duettare con Sharif (non a caso, quasi sempre impegnato in monologhi) restano, a neo perenne. Perchè è a questa distanza che si deve la freddezza con cui è espresso il fervore civico e patriottico (è evidentemente fra i due che si sarebbe dovuto giocare tale partita, con in campo anche la devozione di Aymon al proprio generale) e con esso, l'incompletezza dei presupposti storici: inaccettabile che in un'opera volutamente "divulgativa" si considerino superflue informazioni invece basilari affinchè un pubblico che probabilmente ignora (o non ricorda) possa capire cosa fu l'esperienza murattiana e cosa ne decretò ascesa, successo (anche peculiarmente "aristocratico") e fine tumultuosa, con carico di restaurazione violentissima.
La sceneggiatura arranca tra bruschi cambi di scena - storia personale e storia universale - e brutti dialoghi. Se tempi e luoghi dei monologhi (vedi alla voce Sharif) resistono, i dialoghi affondano nell'inverosomiglianza, il cui picco è la storia "d'amore". Come più volte mi è capitato di osservare, è nella resa scrittoria e recitativa dei sentimenti e dell'incontro profondo fra esseri umani che noi poveri spettatori lasciamo ogni speranza .... Qui la tendenza è alla magniloquenza e alla concettualizzazione astratta: al limite del ridicolo considerando l'estrazione sociale della protagonista femminile, persino più ridicola sul volto imberbe ed inutile di Eugenio.
La fotografia non colpisce, mentre la regia risulta discontinua: alternando intuizioni interessanti soprattutto nell'esorto - fulminante con la ripresa del campo dell'esecuzione dall'alto - ed in alcuni esterni - buono il finale - a troppo momenti banali.
Eppure, con tutti i difetti sopra citati, l'opera sarebbe pure sopportabile. Anzi, apprezzabile, nella sua originalità (la vicinanza anche temporale al lavoro della De Lillo è casuale: realisticamente, in Italia, di "film storici" se ne vedono pochini).
Cosa delude tanto, allora?
Per quanto mi riguarda, delude l'espressione di un sentimento che non sta fra i personaggi ma fra il regista e la sua opera: l'amore incondizionato e rapito per la propria città, le radici, la cultura, la lingua, gli odori, i colori, i sapori .... Il vero fuoco in definitiva: che zampilla dal Vesuvio (speriamo di no!) come dall'animo di Gioacchino e Carolina, Eugenio ed il principe Nicola, Graziella e Antonietta la governante, Lamberto ed la sua audience ideale. Intravisto ma non arso. Napoli si indovina in Palazzo Donn'Anna a Posillipo (credo sia quello), nella sequenza della processione, nella saggezza popolana dei servitori, ma in poco più. E le sicure, oggettive difficoltà a girare in centro (e ricostruire un ambiente di inizi Ottocento) non sono una scusante accettabile, altrimenti, prima di prendere in mano la scottante materia, si sarebbero dovute pensare soluzioni alternative: Portici e Procida non lo sono, per intenderci. Sono solo palliativi.
Ecco, quello che manca è l'emozione.
Il film voleva essere, come dichiarato dallo stesso Lambertini, un "messaggio di tolleranza e gentilezza".
Tanto più forte in quanto lanciato da coloro i quali umanamente e storicamente furono e saranno perdenti: tanto perdenti che la storia stessa li spazzerà via, cancellandoli, di lì a poco. Impossibili ed inesistenti i richiami alla attualità o alla contemporaneità: tutti i protagonisti, nobili o plebei, giacobini o bonapartisti, borbonici o francesi, saranno battuti, altri torneranno e ancora saranno battuti, e tutti moriranno, chi sullo schermo colpito al cuore, chi davanti ad un plotone d'esecuzione, chi poi sulla forca o di vecchiaia.
Questa accettazione a tratti incosciente del proprio destino di buio e silenzio (nella carica "Mon cul" come nella resa al nemico) insieme ad una universalità spazio temporale che non si fa mai consequenzialità, smorzano il tono generale, mesto ma mai veramente drammatico né tantomeno tragico: la speranza è nell'uomo, non negli eventi.
Presupposti succulenti, risultato insipido
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