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Inside Man

Regia di Spike Lee vedi scheda film

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La recensione su Inside Man

di Decks
3 stelle

Un blockbuster anonimo che curiosamente ha avuto un gran successo mediatico, nulla di nuovo se non il ricordo di altri bei film, personaggi inefficaci e una regia incompatibile col tipico thriller. Non sarebbe niente di grave se non fosse Spike Lee: precipitato nella frivolezza, a discapito della sua poetica.

Prima o poi doveva accadere: dopo tanti bellissimi film, uniti al successo de "La 25a Ora" Spike Lee viene ingaggiato per il primo blockbuster della sua carriera; curioso, vista la nomea di regista scomodo e per l'essere continuamente al centro di polemiche razziali.

Malgrado ciò, con un film non suo (dato che inizialmente doveva essere Ron Howard il regista) Lee non delude la produzione e firma il suo più grande successo al botteghino e un apprezzamento quasi totale di pubblico. Appunto, quasi.

 

Tentando di mantenere una certa oggettività, non nego che il lungometraggio in questione appare come un progetto lontanissimo dalla solita poetica di Spike Lee e per di più sopravvalutato.

Prima di tutto il contenuto: tralasciando che le rapine aventi un colpo di scena finale sono ormai trite e ritrite, da Lee mi aspettavo qualcosa di originale in aggiunta allo schema classico dei ladri contro poliziotti posti in una situazione di stallo, invece tutto ciò che troviamo è un thriller all'americana, la cui tipicità è proprio ciò da cui Lee ha sempre voluto distaccarsi nelle sue opere precedenti. Il regista accetta un incarico remunerativo, ma per farlo rovina il suo perfetto mosaico raffigurante un certo tipo di Stati Uniti: quelli dei sobborghi, degli sfruttati e dei reietti inoltrandosi in quello che è un baratro di cliché e già visto che mal si accomuna con lo Spike Lee proveniente dal XX° secolo.

 

 

Non c'è traccia del messaggio di Lee per il procedere del lungometraggio, il che è giustificato dal fatto che fosse un film su commissione, ma ciò, non basta comunque a salvare dalla mediocricità questa classica partita a scacchi tra la legge e i criminali, avvenuta ormai un innumerevole numero di volte in tantissimi altri film usciti dal cilindro di Hollywood.

Tutto un già visto continuo e malgrado vi sia il tentativo di sorprendere il pubblico con la rivelazione finale, poi, come capita quasi sempre, salvo il regista/sceneggiatore non sia molto dotato o abbia saputo dosare con cura gli elementi a sua disposizione, è un lavoro fine a sé stesso, funziona la prima volta recando sorpresa (ma neanche troppa) nello spettatore, per poi afflosciarsi nel caso di una seconda o terza visione.

 

Cosa dire poi sulla scrittura dei personaggi? Gli attori veramente dotati (Jodie Foster e Christopher Plummer) sono relegati in particine con poco spazio e/o stereotipati, gli altri oltre ad avere i precedenti difetti sono totalmente incapaci di reggere il ruolo e il confronto con altri grandi (basti pensare al faccione da pesce lesso di Clive Owen posto di fianco all'Al Pacino di "Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani", o con il James Caan di "Strade Violente" per accorgersi della situazione), inguardabili e soprattutto raffazzonati, più volte i dialoghi si perdono in battutine da tipico thriller di serie b statunitense.

Tra i tanti errori quello che fa più male è vedere come le introspezioni psicologiche tanto care a Spike Lee siano qui ridotte all'osso, o dissacrate, o malamente ricalcate da film di precedente successo.

A difesa del regista, si può dire che la colpa sia da addossare piuttosto su Russell Gewirtz, l'autore del copione da cui Lee, sottoposto ad obblighi contrattuali non aveva possibilità di modificare.

 

Tuttavia, Lee ci mette del suo per rovinare anche il salvabile: la messa in scena è gonfia, elefantiaca nei suoi virtuosismi, così esorbitante e sproporzionata da far sembrare una rapina in banca come la presa di Berlino del 1945 o l'affondamento del Titanic. Ciò, in alcuni momenti, rasenta il fastidio, soprattutto nel finale e nella premessa iniziale, un errore questo che Lee ripeterà nel suo successivo film "Miracolo a Sant'Anna".

Per di più è ironico che Lee 4 anni fa accusò Michael Mann di plagio per "Alì" che a suo dire aveva preso spunto da "Malcolm X", quando in questo film copia spudoratamente lo sfoggio del racconto e i movimenti di macchina, quali soggettive e primi piani. non solo dal cinema di Mann, ma pure da Sidney Lumet e John Frankenheimer, unici momenti questi in cui si può considerare l'opera di Lee riuscita grazie ad un (speriamo) voluto effetto nostalgico.

 

 

Stesso discorso vale per la fotografia, anch'essa fa uso di una colorazione blu-grigiastra proveniente da "Strade Violente" di Mann e da "Trappola Criminale" di Frankenheimer, nulla di eccelso in questo caso dato il riutilizzo di elementi pre-imposti e già utilizzati, la stessa cosa vale di pari passo per la colonna sonora di cui non c'è bisogno di inerpicarsi oltremodo.

Fortunatamente, se il film non precipita nella noia e riesce a districarsi dal complesso "twist ending" senza ingarbugliarsi lo deve al suo punto di forza: ovvero il montaggio.

Barry Alexander Brown viene più volte in soccorso di una sceneggiatura aggrovigliata attuando un taglio deciso, ben coordinato e che da solo riesce a reggere il ritmo della pellicola ed a trattenere la cinepresa isterica di Lee; Brown dimostra tutta la sua professionalità soprattutto durante le sequenze dell'interrogatorio, divise magistralmente tra passato e presente in cui finalmente si riesce ad avvertire la suspance e a creare un po' di mistero. Questa scena in particolare non è niente di ricercato, ma fa in modo di essere un divertente siparietto per lo spettatore, finalmente ben lontano dallo stile tronfio di Lee e distante dall'imbarazzante umorismo dei polizieschi americani post-2000.

 

Un blockbuster anonimo che curiosamente ha avuto un gran successo mediatico, nulla di nuovo se non il ricordo di altri bei film, personaggi inefficaci e una regia incompatibile col tipico thriller di routine. Non sarebbe niente di grave, ma l'amaro in bocca resta per il fatto che sia un passo falso per Spike Lee precipitato nella frivolezza, ma anche in un grande guadagno materiale.

Ahinoi, sarà solo il primo di un deludente periodo cinematografico ("Miracolo a Sant'Anna", "Oldboy").

 

Scene Cult:

 

• Gli interrogatori

 

Pregi:

 

• Montaggio

• Reminescenze di film meglio riusciti

 

Difetti:

 

• Regia

• Cast e recitazione

• Sceneggiatura

• Disordinato e isterico in alcuni momenti

• Un thrillerino USA, anziché un vero e proprio film di Spike Lee

• Poetica di Spike Lee assente

• Colpo di scena finale fine a sé stesso

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