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Inside Man

Regia di Spike Lee vedi scheda film

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La recensione su Inside Man

di (spopola) 1726792
8 stelle

Disincantato, cinico, paradossale: questo è Spike Lee quando ha l’ispirazione giusta. Il suo cinema riesce a far emergere contraddizioni e colpe, capace insomma di alzare il dito accusatorio senza retorica o moralismi per stigmatizzare responsabilità oggettive che non sono attribuibili al singolo individuo, ma appartengono al sistema dominante.

Disincantato, cinico, paradossale, cattivo, insinuante, questo è il cinema di Spike Lee, corroso (quasi sempre, salvo rare eccezioni) da una “furia” sotterranea a volte debordante ed esagitata, ma comunque sempre capace di far emergere “contraddizioni” e “colpe”, di alzare il dito accusatorio senza retorica o moralismi eccessivi, ma con implacabile determinazione, per stigmatizzare responsabilità oggettive che non sono attribuibili al singolo individuo, ma appartengono al sistema dominante, e quindi in qualche modo riferibili all’intera collettività, ormai “criticamente insensibile” e incapace di valutare giudicando, o di “riconoscersi” nei valori etici di una “cultura condivisa” multietnica e variegata. E ancora una volta con questo “Inside man” il regista, dopo la deludente prova (quasi una “vacanza” o forse semplicemente un’involontaria “pausa di riflessione”) del poco significativo “Lei mi odia”, torna a volare alto, a “graffiare” con inconsueta forza e virulenza e lo fa da par suo, utilizzando (ma andando ben oltre) il “genere” di un poliziesco canonico, mutuato da un canovaccio che in apparenza sembra voler semplicemente parlare di “guardie” e di “ladri”, ma attraverso il quale (e con una “leggerezza” di tocco inconsueta che aumenta la portata della denuncia), il regista ribadisce invece ancora una volta il suo personale punto di vista, porta avanti la sua “critica” disillusa e feroce sull’America post 11 settembre, spingendo lo sguardo ben oltre il presente, alla ricerca delle “origini del male” che probabilmente hanno radici in un passato lontano e volutamente occultato, ma non certamente dimenticato o rimosso. Qui forse non si raggiungono i vertici assoluti della “25esisma ora” (al quale per molti versi indirettamente si riallaccia “Inside Man”), ma ci si arriva davvero abbastanza vicino e va attribuito interamente alle “capacità spietatamente analitiche” del regista il merito di aver saputo piegare alla sua “visione” con annotazioni e “sottotracce”, un soggetto all’apparenza di puro e innocuo intrattenimento, ancorato a schemi e logiche abbastanza consuete ed abusate, continuando così con realistica “intelligenza” introspettiva, il discorso di analisi di un mondo e una “civiltà” (quella americana, ma non solo, purtroppo) che merita davvero molto poco rispetto ed ha pochissime attenuanti per essere “assolta”. Concordo quindi con Rototom che è stata una fortuna (dovremmo davvero “accendere un cero alla Madonna” se fossimo credenti ed osservanti) che un film inizialmente destinato a Ron Howard – e quindi “condannato” alla normalizzazione della “realizzazione ortodossa” finalizzata all’intrattenimento piacevole e divertito e niente più - sia passato di mano per l’indisponibilità di quest’ultimo, maggiormente attirato da più allettanti proposte, fra “Cinderella Man” e “Il Codice da Vinci”, fino ad arrivare in quelle sicure e poderose di Lee, che ha colto l’occasione per trasformarlo in un ambizioso progetto (perfettamente “costruito e realizzato”) che, lasciando intatta la “levità del tono”, riesce a mettere a nudo molti “nervi scoperti e doloranti”, scavando nelle coscienze addormentate per tentarne ancora una volta il risveglio. La storia gira intorno ad una cassetta di sicurezza dal contenuto prezioso, sia sotto il profilo economico che sotto quello politico, ed è costruita con la consueta tecnica del racconto al servizio del “prendi i soldi e scappa” con il ladro così bravo e intelligente da mettere nel sacco un poliziotto probabilmente non completamente integerrimo (e con lui il sistema e il potere), ma la qualità superiore del risultato non sta in quel che dice, ma in come lo dice, perché qui non ci sono né buoni né cattivi – per lo meno nell’accezione classica del termine, e le carte sono sempre rimestate per “ribaltare le prospettive” e farci leggere la filigrana delle coscienze (e i personaggi del poliziotto e del ladro possono essere benissimo interpretati come due facce della stessa medaglia, entrambi incapaci di arrendersi, e per questo “pronti a tutto” pur di veder prevalere la propria determinazione). Ed è attraverso l’analisi dei rapporti e dei contrasti delle differenti personalità dei “ladri” e dei “derubati”, a loro volta non adamantini come vorrebbero apparire, del “potere” e delle “infiltrazioni” che tentano di ristabilire la quiete, che vengono lentamente tirati fuori dai cassetti segreti quei “panni sporchi” che nessuno vuol vedere (e non è nemmeno disponibile ad ammetterne l’esistenza), quei virus contaminanti e infestanti che provengono dal “passato” e che minano dal profondo le fondamenta e la “credibilità” non solo di una classe dirigente ed economica che pretende di essere egemone nonostante tutto, ma anche del popolo che la riconosce e la asseconda. Il gioco, costruito con elegante “savoir faire” e pieno di battute fulminanti, è tutto concentrato sul caos (e sulle conseguenti azioni di “disturbo”) determinato da un insolito e per certi versi “incomprensibile” colpo di un gruppo di rapinatori asserragliato all’interno di una banca, che ha preso in ostaggio il personale e i clienti presenti al momento dell’irruzione. Disvelandoci le sottotrame delle contraddittorie trattative, dei conseguenti interventi che evidenziano la disponibilità totale a venire a patti (ovviamente sotterranei) di “personalità esterne” anche importantissime per tentare di “salvare” ad ogni costo il segreto minaccioso che rischia di esser violato, riesce piano piano a far emergere l’intelaiatura, il “disegno”, e con questo, anche gli scheletri che vengono a galla da quell’armadio (o meglio dagli anfratti di “quella” cassetta di sicurezza “anonima e sconosciuta”) che ci consentono di addentrarci, districandoci meglio, nel sistema del corrotto mondo finanziario statunitense analizzandone tutte le sfumature e le “miserie umane” (è un eufemismo ovviamente perché le verità che emergono, le compromissioni e le responsabilità, sono terrificanti e inaccettabili, anche se perfettamente “logiche” e “integrate” (pur se non apertamente ammesse), sopportate e tollerate (persino “giustificate” direi). Dunque i rapinatori sono asserragliati all’interno della banca con i loro ostaggi (e non si riesce a capire esattamente a cosa intendono mirare con la loro azione) e mentre il poliziotto incaricato di trattare “prende tempo per cercare di comprendere”, iniziano le pressioni del fondatore dell’istituto esercitate attraverso il sindaco e una fantomatica, quanto misteriosa signora affinché tutto si risolva nel modo migliore e secondo quelli che sono “i loro personali intendimenti” ed interessi di parte, interventi questi che porteranno a sviluppi e soluzioni inaspettate. Ed è intorno a questo “canovaccio” che Lee costruisce la sua ragnatela di riferimenti e di annotazioni, fino al delizioso colpo di scena finale seguendo un doppio binario di racconto (e anche la resa fotografica dei due piani temporali è genialmente differenziata dall’eccezionale contributo di Matthew Libatique, insostituibile ed eccelso direttore della fotografia): quello della rapina e delle trattative connesse, ricostruito con “sequenza logica”, e quello dei flashback alternati relativi agli interrogatori e alle dichiarazioni degli ex ostaggi liberati. E i contrappunti offerti da quegli eventi “a margine”, rappresentano molto del valore aggiunto, in un caleidoscopio di figure e figurine diversamente focalizzate, ma tutte determinanti per definire l’impianto e la morale, dal sorprendente Plummer in una caratterizzazione “melliflua” ma devastante che riesce a definire da par suo, all’ostaggio indiano che racconta le sue odissee giornaliere determinate dalla diversa etnia e dai differenti”caratteri”somatici, al ragazzino intemerato e spavaldamente divertito fanatico dei videogiochi violenti, a tutti gli altri componenti di questo microcosmo che rappresenta uno spaccato abbastanza significativo, riconoscibile ed “usuale” dell’umanità variegata che ci circonda. Col suo ritmo veloce e sincopato, intenso ed avvolgente, il film riesce a trascinare lo spettatore negli intricati meandri di una storia piena di sorprese e di colpi di scena, ma che è al tempo stesso un apologo non solo sulle “modalità di controllo delle regole del gioco”, ma anche sugli orrori e le responsabilità che certe banche”conoscono” e proteggono (crimini orrendi che possono essere utilizzati nel presente con spregiudicata temerarietà, per consentire inaspettate prospettive di fuga e di negoziazione). Gli attori sono tutti perfetti, da Denzel Washington ironico e disincantato poliziotto a Clive Owen, gelido criminale cinico e determinato, fino ad arrivare a Jodie Foster che, alle prese una particolarissima ed enigmatica figura di donna in carriera (colei che “risolve i problemi”), dimostra ancora una volta che veramente la “classe non è acqua” dando vita con pochissimi “tocchi” a una figura insolita e contraddittoria davvero da manuale. Come al solito, di elevatissimo livello anche la coinvolgente colonna sonora realizzata da Terence Blanchard.

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