Regia di Miklós Jancsó vedi scheda film
Scoprii Milós Jancsó da giovane quando, incuriosito dalle critiche positive che avevo letto su di lui, vidi in un cinema d’essai (il Rubino di Milano) “Silenzio e Grido” ormai pressoché svanito dalla memoria (mi piacerebbe rivederlo) ma che mi indusse a vedere anche gli altri film della cosiddetta trilogia (i precedenti “I disperati di Sándor” e “L’armata a cavallo”) che trovai più che interessanti.
Jancsó è stato un regista dallo stile asciutto e conciso, caratterizzato da lunghi piani-sequenza spesso organizzati coreograficamente quasi come scene di un balletto che sono un po’ la cifra peculiare del regista, anche se in film successivi è poi diventata maniera.
“I disperati di Sándor”, come le altre opere della trilogia, è una rivisitazione di eventi storici dei quali è indagato il contrasto tra rivoluzione e repressione, tra dominatori e dominati. Il film inizia ricordando come in Ungheria, sotto la dominazione austriaca, negli anni 1860/70 iniziasse a svilupparsi un’economia industriale che diede un certo benessere alla borghesia ma che impoverì oltremodo la popolazione rurale, una parte della quale reagì unendosi ai pochi ribelli rimasti della rivolta di Kossuth nel 1849, capeggiati dal mitico Sándor Rósza (i cosiddetti “senza speranza”). Questi furono pesantemente colpiti dalle truppe governative, capeggiate dal conte Gedeon Ráday. È palese il parallelo fra quanto raccontato nel film (del 1960) e la situazione in Ungheria e le repressioni attuate dal governo fantoccio di Janos Kadar negli anni successivi all’invasione sovietica del 1956 .
Il film espone le vicende di un folto gruppo di “senza speranza” rastrellati e deportati un una fortezza isolata sperduta nella campagna, questa ripresa in campi lunghi e lunghissimi con il grandangolo che impicciolisce le figure umane e le fa sembrare disperse nel vuoto, simboleggiando la loro precaria condizione. Sono quindi descritte le perfidie e le vessazioni dei governativi per scovare e sopprimere i ribelli, come rinchiuderli in celle ridottissime o sparare alle spalle un prigioniero dopo averlo illuso (forse) di liberarlo; allucinante, nella sua significatività, la scena in cui un gruppo di prigionieri è fatta camminare in circolo con il capo coperto da un pesante cappuccio che impedisce la vista come per annientare la loro dignità umana.
Altra vicenda che evidenzia la crudeltà e doppiezza della repressione è quella di Janos Gájdar, dapprima individuato come assassino poi, con la fallace promessa di clemenza (deve individuare chi ne ha uccisi più di lui!) è usato come spia per individuare ed impiccare altri ribelli e quindi sputtanato di fonte agli altri prigionieri in modo che siano questi a sopprimerlo per essere poi a loro volta accusati di omicidio e condannati all’impiccagione. La scena più impressionante è, comunque, la fustigazione con le sciabole di una ragazza nuda fatta correre avanti e indietro fino alla morte fra due file contrapposte di soldati: l’efferatezza della tortura induce alcuni prigionieri a suicidarsi per protesta gettandosi dal muro sul quale erano stati fatti assistere al fatto. Atroce poi la perfida beffa finale con cui sono individuati e catturati Sandor e gli ultimi ribelli superstiti.
Rivisto oggi il film conserva un forte impatto e lo considero un capolavoro per le scelte registiche e per lo stile, in apparenza freddo e distaccato ma che rafforza anziché sminuire l’emozione per i fatti raccontati.
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