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I disperati di Sandor

Regia di Miklós Jancsó vedi scheda film

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La recensione su I disperati di Sandor

di Peppe Comune
9 stelle

“Budapest, 1860. È il momento in cui in Ungheria nasce l’industrializzazione. L’epoca di Ferenc Deak, Gyula Andrassy, Kàlmàn Tisza. Gli ideali per la lotta d’indipendenza del 1848 non sono che un ricordo, ora quello che conta è il benessere borghese. Ma la situazione delle classi meno abbienti è sempre la stessa. E in più, il pericolo di carestia verificatosi agli inizi degli anni sessanta, ne ha raddoppiato la miseria. La delinquenza aumenta, i disperati tentativi di sottrarsi a questa miseria si moltiplicano. Le autorità sono implacabili. Inizia una spietata caccia a ribelli e banditi, ultimi rappresentanti di una resistenza attiva. Agli occhi delle autorità sono dei criminali, ma nelle ballate popolari sono esaltati come difensori della libertà. Nel 1869 il Conte Gedeon Raday viene nominato commissario del governo e investito di poteri speciali. Il suo compito è quello di proteggere la proprietà privata. Egli si accanisce in particolar modo contro i ribelli. I suoi metodi di repressione non hanno limiti”.

È in questo quadro storico che sono ambientati i fatti narrati ne “I disperati di Sandor” di Miklós Jancsó, incentrato sul tentativo della polizia austro-ungarica di eliminare ogni traccia dei moti rivoluzionari del 1848 propugnati dal movimento nazionalista di Luigi Kossuth. Dà la caccia agli uomini appartenenti al gruppo di “briganti” denominato “i senza speranza”. Usa ogni forma di stratagemma ingannevole pur di arrivare all’identità dei ribelli ancora in libertà, compresa quella del loro capo riconosciuto, il “patriota” Sàndor Ròzsa.

 

scena

I disperati di Sandor (1965): scena

 

 

A mio modesto parere, Bela Tarr appartiene alla ristretta cerchia di autori che hanno influenzato in maniera decisiva le sorti del Cinema contemporaneo in termini di contributi offerti al “rinnovamento” della grammatica e del linguaggio. Premesso ciò, penso anche che, se è vero che Bela Tarr, per rigore registico, per la composizione “ellittica della messinscena, per la potenza evocativa trasmessa dai movimenti di macchina, svetta tra i grandi e primeggia nell’ambito particolare del cinema ungherese, è altrettanto vero (sempre a mio modesto avviso) che non si può non rilevare in lui l’influenza decisiva di Miklós Jancsó. Capostipite della “Uj Hullàm” (la Nouvelle Vague ungherese, diversa per approccio e stile alle “consorelle” e coeve cecoslovacca e polacca), Jancsó ha cominciato già dagli anni 60 a fare dei movimenti di macchina l’invito a racchiudere in uno stesso schema cognitivo il rinnovamento in fieri delle pratiche cinematografiche e le riflessioni ragionate sul divenire storico. Riprese che si perdono a vista d’occhio lungo le sterminate pianure ungheresi, il vento che porta con sé l’eco del disincanto, lunghi piani sequenza che avvolgono e coinvolgono lo spettatore in un percepibile stato di sospensione ipnotica. Di questi tratti stilistici distintivi, Miklós Jancsó e Bela Tarr rappresentano insieme l’ideale chiusura del cerchio di un sistema cinematografico sorprendentemente prodigo di talenti, un sistema che ha loro come punti di riferimento indistruttibili, all’interno del quale tanti buoni registi hanno trovato la linfa necessaria per avviare il loro originale percorso cinematografico, attingendo e rinnovando. Come sempre accade.

In questo quadro d’insieme, “I disperati di Sandor” rappresenta (forse) il primo grande film del “rinnovato” cinema ungherese, un’opera dalla forma esile ma dai contenuti onnicomprensivi, iconoclasta per i temi trattati (dato i tempi) e temerario per lo stile registico assunto. Un film che assomma composizione rigorosa della messinscena e presenza tangibile dei movimenti di macchina, ampiezza dello sguardo e riconoscimento in filigrana del volto della storia. Un affresco storico poderoso che parla della repressione dei moti rivoluzionari del 1848 per sottintendere una denuncia velata contro quella messa in atto dal regime sovietico nel 1956 ; che ci mostra la violenta marginalità cui vengono posti i dissidenti fedeli a Kossuth per evidenziare come ogni tipo di potere costituito fonda la sua idea di conservazione sull’egemonia dei forti sui deboli : sulla volontà di potenza dei carnefici e la ricattabilità a basso costo delle vittime. Considerato come uno degli esecutori più sapienti del piano sequenza (insieme a Theo Anghelopoulos), Miklós Jancsó li usa qui con una parsimonia calcolata, soprattutto per affrancare lo sguardo dalla matrice claustrofobica che permea profondamente la sostanza narrativa, donandogli quell’ampiezza di veduta che finisce per somigliare a quella ricavata dal respiro espandente della storia. Spesso l’autore ungherese appunta l’attenzione su delle porte le quali, nell' aprirsi, e come se invitassero lo sguardo dello spettatore ad andare oltre la limitatezza del campo visivo, verso un altrove più esteso.

Avvolto in un bianco e nero carico di un sole accecante (che ritroveremo oltre cinquant’anni dopo nel bellissimo “1945” di Ferenc Török), “I disperati di Sandor” ci racconta di quell’inferno terreno che può essere qualsiasi campo di prigionia, luogo di perdizione e disperazione, dell’esercizio dispotico del potere e del potere esercitato dagli ufficiali asburgici per perpetuare impunemente la conservazione dello status quo. Il film ruota intorno ad una sorta di contrasto ellittico : da un lato, abbiamo l’impoverimento visibile delle campagne che ha la faccia dolente di un’umanità spogliata dei suoi valori più stringenti ; dall’altro lato, troviamo l’invisibilità del processo di industrializzazione dei centri urbani che rimane debitamente fuori campo, sullo sfondo, ad imporre nuove regole e uomini nuovi. A fare da collante è la morale borghese, che fornisce argomenti ai fautori della restaurazione e funge da premessa necessaria per spiegare di fronte alla storia il sacrificio dei miserabili. Tutto si svolge in un unico ambiente e il limite che intercorre tra le menzogne raccontate dai prigionieri per coltivare l’illusione di avere salva la vita e le verità ricercate dagli ufficiali per corrispondere al loro piano repressivo, ricalca il ruolo silente assunto dalla storia rispetto alla vita che si compie, un ruolo ufficializzato sempre dall’indirizzo culturale voluto dai vincitori. In conclusione, “I disperati di Sandor” è un film dalle simmetrie geometriche che rasentano la perfezione, di inquadrature che si aprono ad altre inquadrature possibili, di sinuose carrellate circolari, di sequenze che non si dimenticano (la lapidazione di una donna, alcune pratiche di tortura, la calma marzialità dei soldati passati in rassegna, il finale “beffardo”). Un film che si nutre di forme cinematografiche messe in pratica con consapevole intento rivoluzionario. Dalle parti del capolavoro.         

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