Regia di Miklós Jancsó vedi scheda film
VOTO 10/10
Probabilmente il capolavoro di Miklos Jancso', maestro del cinema ungherese scomparso pochi anni fa che trovo' il suo periodo di maggiore ispirazione artistica fra la seconda metà degli anni Sessanta e i primi anni Settanta (anche il suo "erede" Bela Tarr gli renderà omaggio definendo questo film "la montagna più alta" del suo cinema, dunque il suo capolavoro). Il film ci riporta al periodo intorno al 1860 in cui l'esercito al servizio degli Asburgo aveva installato alcuni campi di prigionia per i ribelli della rivolta del 1848, guidata da Lajos Kossuth. Di questi ribelli, coordinati dal leggendario fuorilegge Sandor Rozsa, nel 1867 ne rimanevano ormai pochi, ma le forze asburgiche continuavano a vessarli con una serie di ricatti e sevizie fisiche e psicologiche che il film ci mostra con spietata crudezza.
Jancso' all'epoca nego' risolutamente che ci fosse un qualsiasi collegamento con la rivolta ungherese del 1956 contro il regime sovietico, anche se il film funziona come un'evidente allegoria della dittatura del regime moscovita e degli aneliti libertari innescati dalla rivolta del '56. Si tratta di un'opera dura, fredda, che a tratti potrebbe risultare quasi respingente, ma all'insegna di un perfetto controllo formale, di uno stile di grande vigore espressivo e potente nella sua coraggiosa denuncia. I piani sequenza si accumulano con implacabile precisione, pur non essendo ancora così lunghi come nelle opere successive; la fotografia di Tamas Somlo inquadra la fortezza che funge da prigione come se fosse un edificio di un altro pianeta; i movimenti di macchina definiscono già qui quella coreografia tipica del regista ungherese che in opere successive sfocera' nella maniera, ma che qui è perfettamente organizzata. L'abuso del potere e la violenza insensata sul piu' debole trovano nelle immagini di Jancso' una rappresentazione davvero memorabile, che all'epoca colpi' fortemente la critica e un pubblico internazionale, ma che al giorno d'oggi pochi ricordano. Il contenuto politico del film lo avvicina per certi versi a quello de "La battaglia di Algeri " di Pontecorvo, uscito nello stesso anno, anche se il film di Jancso è più distaccato e rigido nell'impostazione, ma altrettanto forte e coinvolgente. Il paesaggio desolato della puszta ungherese battuta dal vento e' lo stesso che tornera' nel capolavoro di Tarr "Il cavallo di Torino", che riprende il pessimismo jancsiano; la scena della fustigazione della ragazza e del suicidio di protesta di alcuni detenuti e' da antologia. Assolutamente da riscoprire.
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