Regia di René Clair vedi scheda film
Otto persone vengono invitate a passare un fine settimana nella villa di un certo signor Owen situata su una piccola isola sperduta nel Devon. Queste otto persone sono : il dottor Edward Armstrong (Walter Huston), il generale John Mandrake (C.Aubrey Smith), il detective privato William Blore (Roland Young), Vera Claythorne (June Duprez), l’avventuriero Philip Lombard (Louis Hayward), il principe Starloff (Mischa Auer), il giudice Francis J.Quinncannon (Barry Fitzgerald), la signorina Emily Brent (Judith Anderson). Ad accoglierli ci sono due domestici, i coniugi Thomas Rogers (Richard Haydn) ed Ethel Rogers (Queenie Leonard). Le dieci persone presenti nella villa non si conoscono tra di loro e nessuno di loro ha neanche mai conosciuto i coniugi Owen che li hanno gentilmente invitati sull’isola. Ognuno delle dieci persone si è macchiata in vita di almeno un grave delitto e una voce registrata su disco gli fa sapere che il motivo per cui sono stati invitati sull’isola è di essere solennemente giustiziati per i loro crimini lasciati impuniti. Intanto viene trovato lo spartito di una vecchia filastrocca che racconta delle varie disgrazie che portano alla morte di dieci piccoli indiani. Da quel momento, i dieci abitanti della casa cominciano a morire uno ad uno proprio secondo le indicazioni della canzoncina.
“I dieci piccoli indiani” è la prima e più importante trasposizione cinematografica del celebre romanzo omonimo di Agatha Christie. E’ l’ultimo film di Renè Clair in trasferta ad Hollywood ed è l’unica sua incursione nel giallo. Ma la classe non è acqua e si vede, perché l’autore francese dimostra di maneggiare la materia con grande padronanza di linguaggio e arriva alla creazione dell’atmosfera tipica che si richiede alla graduale ricerca di un assassino rituale senza disperdere per strada, ne l’assunto filosofico di base voluto dalla scrittrice inglese, che era quello di fare dell’implacabilità della morte il corollario necessario di una colpa rimasta impunita, ne quell’humor nero che tende ad alleggerire i tristi presagi di una morte annunciata. All’alba delle prime vittime, i superstiti, una volta appurato il legame tra le modalità degli omicidi e la triste litania che li annuncia e una volta accertatisi dell’assenza di qualsiasi altra persona sull’isola, giungono all’ovvia conclusione che l’assassinio sia il fantomatico signor Owen e che questi non possa essere che uno di loro. Così la grande casa si trasforma in una trappola mortifera che arma l’occhio implacabile del sospetto, una sorta di labirinto senza uscita dove le parole che si dicono non sono mai precisamente quelle che si pensano e dove la paura che in ognuno prende corpo riflette con geometrica specularità la gravità psicologica delle rispettive colpe. Ci sono un giustiziere assassino e nove colpevoli che dovranno essere puniti, nove pedine che imparano a non fidarsi nemmeno della propria ombra e una decima tra di loro che conduce un gioco macabro giocando sui nervi scoperti di personalità diffidenti e seguendo un rituale che si sottrae all’imprevedibile presenza del caso. Tutto è’ già stabilito ed è tutto molto semplice, comprese la chiusa circolarità di un isola deserta e l’ambigua generosità della grande villa. Quella che è geniale è l’architettura d’insieme, la tensione che si accompagna all'ironia e la superba caratterizzazione di ogni personaggio, l'attesa di scoprire la faccia del sigor Owen e la fondamentale traccia filosofica che sorregge l'intera storia: la colpa personale che insinua il sospetto per il prossimo e il sospetto che rende tutti dei potenziali criminali ; le paure presenti come lo specchio preciso di ombre passate ; il tentativo di palesare l’un l’altro la natura dei rispettivi delitti come il viatico di una vicendevole autoassoluzione. Non c’è un caso da risolvere ma solo una morte da aspettare, quando arriva. Renè Clair apportò un sostanziale cambiamento alla parte finale del romanzo, ammorbidendo abbastanza il pessimismo greve che lo caratterizzava per giungere ad un più rassicurante “lieto fine” secondo le canoniche concessioni da fare all’industria hollywoodiana. Nulla di grave comunque, rimane un grande film.
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