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La tierra prometida

Regia di Miguel Littin vedi scheda film

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(spopola) 1726792

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La tierra prometida

di (spopola) 1726792
8 stelle

La poesia del popolo, è una poesia che deve passare da una mano all’altra. E’ una poesia che deve sventolare al vento come una bandiera”.
Sono parole di Pablo Neruda che a mio avviso risultano essere davvero molto pertinenti (o per meglio dire “calzano a pennello”) per introdurre il discorso su La tierra prometida che Miguel Littin realizzò nell’ormai lontano 1972.
Il film, girato interamente in terra cilena, dopo il colpo di stato del generale Pinochet (1973), sanguinoso e cruento al pari dell’episodio repressivo raccontato dalla storia messa in scena dal regista, fu però poi montato a Cuba, con il contributo specifico dell’Istituto del Cinema di quell’isola particolarmente attivo e “progressista” in quegli anni (e questo la dice lunga sull’importanza oggettiva, oltre che sulle “riaccese speranze” che seppe fomentare nell’immediato in tutto il mondo la vittoria della rivoluzione castrista, nel fornire una concreta ipotesi “possibile” di un differente futuro per  ogni popolo secolarmente oppresso dal potere) dove Littin si era rifugiato per sfuggire alle persecuzioni, prima di emigrare in Messico.
La tierra prometida  arrivò anche in Italia  – mercato per antonomasia fondato quasi totalmente sul profitto speculativo  che già allora era preponderante –  ma solo nel 1975, e in forma che definirei quasi semi-clandestina per come fu fatta circolare (poco e male) in una versione originale sottotitolata con qualche approssimazione di troppo.
Era già quello un periodo in cui la realtà molto consumistica della distribuzione preferiva boicottare un poco le opere a  forte tematica sociale  (e quella di Littin rientra a pieno titolo in questa categoria) perché  la  restaurazione anche culturale post-sessantottina, cominciava a farsi lentamente strada  nella ufficialità dei fatti e delle scelte e si iniziava già ad avvertire una leggera, fastidiosa brezza di   riflusso anche ideologico, che di lì a poco tempo sarebbe diventata una impetuosa tempesta capace di spazzar via molte “certezze”), ma nonostante ciò – e per fortuna - esisteva ancora il coraggioso impegno di piccole iniziative poco sponsorizzate dal sistema, che riuscivano ad importare e a farci conoscere questi lavori scomodi, propositivi ed interessanti oltre che per i contenuti anche per uno stile tutt’altro che predicatorio della confezione e comunque di alto pregio anche documentale, sia pure “relegandoli” nei circuiti secondari dei cineclub o in quelli ancor più “alternativi” delle Case del Popolo .
A scanso di equivoci, voglio subito sgombrare però il campo dall’ipotesi che qualcuno, in base a questa premessa potrebbe subodorare e fare propria, che ci si trovi di fronte a un’opera di mera propaganda, o  peggio ancora a un titolo infarcito di sterili e precotti “slogan leninisti”. Chi conosce il cinema di questo regista (soprattutto ciò che ha realizzato in quegli anni)  sa che nulla di tutto questo sarebbe stato possibile, viste le inusuali qualità espressive dell’autore, perché ci troviamo davvero di fronte  a una straordinaria opera di Poesia (ed è proprio per questa ragione che ho utilizzato l’avallo iniziale dei versi di Neruda  per definirla) che racconta con un originale quanto inedito impasto di realismo, teatralità e  qualche traccia di un surrealismo espresso in toni molto elementari che non disdegnano il ricorso all’utilizzo di elementi liturgici del rituale folcloristico e cattolico di quel paese, un episodio storico scandito nelle cadenze e nei ritmi di un poema eroico-popolare  tramandato nella maniera del racconto orale dei cantastorie. Malgrado  alcune rozzezze evidenti, alcuni momenti un po’ didascalici e qualche passaggio “dichiaratamente” didattico costruito con calcolata ingenuità divulgativa, il film si rivela, e si conferma ancor oggi, come  uno dei migliori – per inventiva popolare, gusto della narrazione un pò fiabesca, ambizioni spettacolari – tra quelli realizzati in quell’epoca nei paesi dell’america-latina.
Un film dunque tutto strutturato sulle componenti culturali del folclore e dei  miti caratteristici  del popolo cileno (così potremmo definirlo) ma  con un approccio più emotivo che razionale, che consente al regista di fondere con ineccepibile coerenza in quel singolare impasto già sopra descritto di “fonti” e suggestioni, l’analisi politica  e  la descrizione antropologica dei fatti (le tradizioni, la religione, le superstizioni)  dentro un’opera formalmente ineccepibile, addirittura raffinata,  e soprattutto memore  – stilisticamente parlando - (e in parte debitrice)  delle lezioni “barbariche e violente” del miglior Glauber Rocha o dei memorabili piani-sequenza  di Jancso. (Claudio Valentinetti).
Come già aveva fatto con la pellicola che immediatamente la precede (El chacal de Nahueltoro),  anche con questo La tierra prometida infatti Miguel Littin ha recuperato autentici episodi  ancora vivi nella mitologia popolare del suo paese, quei moti rivoluzionari spontanei della storia cilena, trasfigurati però  con l’afflato della creazione artistica tout court.
Nel caso specifico e in una progressione più tematica che temporale fra le due opere, la “leggenda” (se così la vogliamo definire, visto che al di là dell’epica della celebrazione popolare di un fatto reale ci sono anche elementi “fantasiosi”  che ci introducono a una interpretazione un po’ “favolistica” delle cose), passa dal personaggio di “José del Carmen Valenzuela”  a quello di “José Duran” , un contadino disoccupato guidato al socialismo dalla Vergine del Carmen, patrona del Cile.
Il regista affida però al personaggio ingenuo e fantasioso (questo di totale  invenzione) di “Chirigua” il compito di narrare la storia della comunità contadina della verde vallata di Palmilla.
E “Chirigua” ci viene rappresentato  proprio come un cantastorie semplice e arguto, ma dagli occhi “incantati” capaci di fare poesia popolare: grazie a questa mediazione, ne esce fuori un fantastico e un po’ surreale “affresco-naif” di rara  e coinvolgente potenza emotiva.
Ridondante e visionario, il film ricostruisce quindi con la  poetica libertà di quella mediazione, dei fatti realmente accaduti  (l’esodo dal nord al sud dei contadini disoccupati alla ricerca della “terra promessa”) nella linea di quel recupero della memoria collettiva e di una storia non scritta (Volpi) che è stata una modalità “rappresentativa” molto utilizzata in quegli anni dai registi emergenti di tutta la corrente cinematografica latinoamericana.
Quell’esodo a suo modo “biblico” (i fatti narrati realmente accaduti,  si collocano intorno al 1930), quel viaggio verso la “riscossa”, porterà quel manipolo di uomini a realizzare la prima società socialista (quella di Palmilla), che la discesa dal cielo di un “messaggero alato” (in effetti un aereo rosso fuoco) e la predicazione di una nuova ”verità rivelata” trasformano in una straordinaria parafrasi che si muove in una dimensione capace di coniugare strettamente e senza troppi stridori (e tantomeno contrapposizioni ideologiche)  le tematiche marxiste con quelle del messaggio evangelico. Un ricco – dice  a un certo punto José Duran – non abbandonerà mai di sua spontanea volontà le ricchezze che ha accumulato, e sono parole capaci di “far risuonare” quelle ancor più definitive delle sacre scritture (è più facile che un elefante passi attraverso la cruna di un ago che un ricco possa entrare in  Paradiso) che ben conosciamo fino dagli anni del catechismo.
Ma sono soprattutto  le dure sequenze finali a fornire pregio e spessore a quest’opera per la dirompete e crudele forza che possiedono, pregne come sono di una inusuale intensità drammatica intrisa di una  liricità di travolgente effetto, e della loro dolorosa emblematicità di cui si fanno carico, nel mettere in scena con crudo ma anche “visionario” realismo, la sanguinosa repressione operata sulla comunità contadina  dai militari al soldo dei latifondisti stranieri, e la “resurrezione” quasi “cristologia” sul campo di battaglia, dei corpi mutilati e straziati di quei contadini caduti per difendere la “loro terra”, che si alzano indomiti  sventolando bandiere di libertà e di pace.
Conclude magnificamente il film (che si avvale di una intensa squadra di interpreti - fra i quali spicca  la prova maiuscola di Nelson Villagra nella parte di José Duran - oltre che delle funzionali musiche e delle canzoni di  Sergio Ortega, oggettivamente inscindibili  dal ritmo e dalle scansioni delle sequenze) una bellissima frase di Che Guevara: anche chi ha sbagliato, chi non ha compreso, chi non ha saputo, chi è rimasto per via, anche loro hanno fatto la rivoluzione (sulla quale sarebbe magari necessario meditare e riflettere oggi ancor più che di allora).
Rivisto adesso, La tierra prometida può aver forse perso un po’ dell’urgenza drammatica che aveva quando fu realizzato e distribuito (ma non certo per quelli della mia generazione che quel tempo lo hanno vissuto in “diretta”) così a cavallo e a  ridosso com’era stato concepito rispetto ai tragici avvenimenti  della “caduta” di Allende, ma  in ogni caso conserva intatto, anche  per chi avesse solo “ricordi” sfumati e non proprio di prima mano di quei drammatici accadimenti, l’interesse per come vengono utilizzati i moduli della cultura popolare che Littin dimostra di conoscere a menadito, per esprimere i valori  della libertà e della “sopravvivenza” contadina.

Sulla trama

Un cantastorie (Chirigua) racconta la storia dei gruppi di disoccupati che nel 1930 e seguenti, attraversarono il paese cileno guidati da José Duran alla ricerca di un luogo “dove poter  dormire, mangiare e lavorare”. Nel viaggio incontreranno Taje Cruzado che parla di socialismo, ma si imbatteranno anche nella processione della Madonna del Carmen… e gli episodi che si susseguono nell’avvicinamento progressivo alla loro “la terra promessa” (che è anche un percorso  di presa di coscienza individuale e collettiva), sono molteplici: il lavoro in un circo, l’espulsione da un villaggio, l’apparizione un po’ surreale (anche simbolica) di un treno pieno di signori impossibilitato a proseguire il suo viagigo perchè sono finiti i binari, sono i più singolari e significativi.
Quando finalmente approdano a quella “terra promessa” che già Cruzado aveva loro indicato come possibile, tutt’altro che un’utopia,  cominciano a coltivare, a costruire case, a organizzare la vita., mentre nel cielo compare un aereo rosso fuoco (simbolo alato del socialismo) che annuncia la presa del potere  da parte di Marmaduke Grove…. Una effimera vittoria che si protrarrà però soltanto per 12 giorni. Quando Duran e i sui uomini si mettono in marcia  guidati dal generale Arturo Prat per arrivare in città a sostenere la svolta,  il sogno si è ormai già infranto e a nulla valgono i  nuovi tentativi di ricostruire  consolidandolo un (im)possibile stato sociale equo e condiviso anche nella ripartizione delle terre. Arriva così alla fine l’esercito a ripristinare l’ordine del potere e Duran e i suoi uomini si trovano costretti a ritirarsi dopo aver lasciato sul campo molte vittime innocenti. Ritornano così a Palmilla, la comunità dalla quale sono partiti, ma la trovano circondata dai militari che ordinano loro di ritirarsi. Indomiti, non si arrendono e si arriva così allo scontro cruento, nel corso del quale per l’imparità delle forze contrapposte, i  contadini sono sopraffatti nel sangue, uccisi insieme a Duran e sua moglie… Ma come in un sogno… tutti ti caduti su quel sanguinoso campo di battaglia, alla fine “ risorgono” (una specie di “resurrezione” collettiva) per innalzare al cielo i loro vessilli di libertà che inneggiano al futuro.

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