Regia di Federico Fellini vedi scheda film
Quello che Federico Fellini aveva lasciato supporre (ma neanche troppo), ciò che aveva accuratamente e discretamente seminato nei precedenti venticinque anni di esperienza cinematografia, raggiunge l’apoteosi. In romagnolo, Amarcord vuol dire “Mi ricordo”: il film non è altro che un’affettuosa antologia di una giovinezza polifonica. Probabilmente (anzi, secondo chi scrive), è anche il miglior film del maestro riminese, ma forse ciò potremmo dirlo solo alla fine di questo breve viaggio per capire Amarcord. In realtà capirlo non è difficile (se comparato ad altre opere di Fellini, dal capitale La dolce vita al vertice assoluto 8 e ½ passando per l’artificioso ma affascinante Giulietta degli spiriti), basta avere un bagaglio emotivo, quella formazione che si accumula in un solo periodo della vita: l’adolescenza. Il protagonista della storia (un filo rosso che lega le mille storie del Ricordo), manco a dirlo, è la proiezione infantile di Federico, si chiama Titta (Bruno Zanin) e vive esperienze umane importanti ed “avventurose”.
L’alter ego ha rapporti con personaggi da incorniciare in un ideale quadretto umano, presumibili caratteri reali che Fellini ritiene di immortalare per sempre nella pellicola: ed ecco allora sfilare la mamma massaia che prepara il pranzo della domenica (il volto antico di Pupella Maggio doppiata da Ave Ninchi); il padre costretto a bere olio di ricino (Armando Brancia); lo zio Teo, un matto che sale sull’albero per urlare “voglio una donna!!!” (un memorabile Ciccio Ingrassia); il vecchio nonno destinato ad una vita ancora lunga; il severo maestro; la a dir poco procace tabaccaia; lo zio parassita; e la mitica Gradisca, la parrucchiera abbagliata dal mito mussoliniano e sogno proibito di tutti i maschi (la straripante Magali Noel)… Su tutti, poi, il Rex che ormeggia a Rimini, passa per un saluto (come una diva), viene visto come l’atterraggio di qualcosa di indecifrabilmente sconvolgente.
Il gusto del rammendare il ricordo dei giorni più belli, alla ricerca del tempo perduto, induce Fellini a recuperare lo sguardo fanciullesco di un ragazzo sognatore. È molte cose, Amarcord: è il ritratto gustoso di una provincia italiana profondissima e radicata nel fecondo territorio non solo con le mani ma anche con i piedi; dal momento che non si può raccontare un ambiente se non contestualizzato nella sua realtà sociale, il film è anche una satirica e feroce critica alla dittatura fascista, presa letteralmente per i fondelli nei suoi caratteri pomposi, retorici, addirittura grotteschi (le adunate, il sabato fascista, l’arrivo del duce); quindi c’è pure l’altra faccia della medaglia, ossia la famiglia di Titta che subisce senza contestare gli ordini impartiti dall’alto; e poi è anche (soprattutto?) il racconto vivace e buffo, spiritoso e malinconico di una formazione.
Cosa vuole dire Fellini? Vuole dire che se decontestualizzate dalle situazioni storiche, le giovinezze si assomigliano tutte, sia nei lati felici che in quelli più seri. È rivolto a tutti, non solo a coloro che hanno vissuto l’epoca descritta (gli anni trenta), e per questo tutta l’umanità del film ti sembra di conoscerla da una vita. Chi è nato in provincia non può non ritrovare qualche aspetto peculiare della vita provinciale (l’eccitazione per l’arrivo delle mille miglia, per dire) e non poche affinità tra i personaggi della storia e quelli della vita reale (la donna-mito, qui la tabaccaia dalle grosse tette che stimola la fantasia ormonale dei ragazzi; il matto; la bella donna disponibile e via così). Il pregio maggiore sta in questa sua ecumenica universalità: tutti abbiamo i nostri ricordi, e, anche se non sono gli stessi, Fellini ha trasportato sullo schermo l’essenza profonda di quelle memorie, altrimenti seppellite sotto la polvere del tempo. Che inesorabilmente passa, e passa via come un lucente transatlantico nella notte, sulle indimenticabili note di Nino Rota.
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