Regia di Federico Fellini vedi scheda film
Uno dei più grandi film della storia del cinema.
Il titolo Amarcord, che è dialettale e significa io mi ricordo, ci dice subito che questo è il film delle memorie affettuose dell’infanzia e della prima giovinezza, in un contesto sociale nel quale la lingua della comunicazione familiare continuava a essere il dialetto.
Siamo infatti nei primi anni ’30 a Rimini, allora poco più di un borgo, quando il fascismo stava diffondendosi anche nella Romagna più tradizionalmente anarchica e socialista: alcuni vecchi militanti, però, avevano mantenuto la dignità sufficiente per far suonare le note dell’Internazionale da un grammofono sistemato fortunosamente sul campanile, per rovinare la festa ai camerati gozzoviglianti.
La media borghesia riminese, invece, si stava adeguando al regime, mentre incombevano i segnali della avvenuta “normalizzazione” dell’intera zona: la grottesca sagoma di un Mussolini di cartapesta, ricoperto di fiori e parlante alla folla “oceanica”; i saggi ginnici alla fine dell’anno scolastico; i gerarchi privi del senso del ridicolo e la violenza intollerante e prepotente, che, come negli anni ’20, utilizzava lo squadrismo delle manganellate e dell’olio di ricino. Gli incredibili insegnanti del liceo locale, retori vanagloriosi, destinati alle impietose burle degli studenti, si riconoscevano nel nuovo regime, così come il parroco, preoccupato soprattutto di dare alla chiesa un’apparenza di ordine e bellezza, mentre la realtà era quella degli studenti che, sempre meno convinti di aver gravemente peccato, aspettavano impazienti che avesse terminato di sistemare i fiori per confessare qualche infrazione al sesto comandamento, quelle che permettevano l’affrettata assoluzione con l’immancabile penitenza.
Le giornate dei giovani passavano fra gli scherzi agli insegnanti, la vita in famiglia e lo struscio lungo le vie di Rimini, dove potevano alimentare le fantasie erotiche grazie alla tabaccaia dai seni mostruosamente debordanti, e alla bella Gradisca, maliziosa e, a modo suo, quasi elegante negli abiti che ne fasciavano le curve: vantava un passato prestigioso e leggendario, avendo accolto sotto le lenzuola addirittura il principe ereditario.
Tutti i maschi, in ogni caso, anche i meno giovani, erano ossessionati da queste fantasie, che, secondo loro, non potevano che realizzarsi all’interno del Grand Hotel, luogo mitico, circonfuso d’aura misteriosa da parte di chi, dall’esterno, ingrandiva coll’immaginazione lussi e lussuriose orge, soprattutto dopo che uno sceicco vi aveva alloggiato, sistemandovi anche il suo seguito di dignitari con fez e di ben trenta concubine.
Il vecchio anarchico, costretto a bere l’olio di ricino, era l’irascibile padre di Titta (Titta Benzi, da ragazzo, era stato davvero compagno di liceo e di avventure di Federico Fellini), prontissimo sempre, all’ora di pranzo, a rovesciare il tavolo, senza curarsi dei piatti che si frantumavano, dei bicchieri che si rovesciavano, del cibo che andava di traverso a tutti. Era capomastro e lavorava costruendo case e villette lungo la costa: la cittadina si stava sviluppando, ma per il momento manteneva le caratteristiche del paese, anzi del borgo, in cui tutti si conoscevano e fondamentalmente si accettavano bonariamente.
Il film, che segue l’esile traccia della storia di Titta e della sua famiglia, in realtà è la corale rappresentazione dell’intera comunità, così come poteva essere vista, però, da un ragazzo adolescente che stava diventando adulto, ma non aveva perso le stupefacenti fantasie dell’infanzia appena trascorsa. Nascono da questa disposizione d’animo la curiosità verso le cose della vita e verso le abitudini talvolta bizzarre degli uomini e delle donne, tutti raccontati con ironia indulgente; nasce anche l’incantata meraviglia che alimenta alcune tra le pagine più famose ed emozionanti del film: l’arrivo delle odalische, l’harem da Mille e una notte; l’approdo dell’attesissimo transatlantico Rex, comparso di notte, all’improvviso, quando molti ormai si erano addormentati sulle barche, incantevole con le mille luci che ne alleggerivano l’enormità; la nevicata che, ricoprendo col suo manto bianco l’intero borgo, ne faceva lo scenario ideale per la splendida epifania del fantastico pavone del conte, così bello e lieve, nell’eleganza delle sue piume, da placare le intenzioni aggressive dei ragazzi che lo avevano visto arrivare. In questo grande affresco non mancano le pagine malinconicamente dolorose, in cui il racconto si fa più pudico e tristemente allusivo e metaforico: la nebbia che si porta via il nonno di Titta; le briciole che restano sulla tovaglia, spinte per terra dalla mano del padre, l’irascibile, ormai privo di riferimenti nel momento della morte della moglie…
E’ impossibile scrivere queste poche cose, senza che si ripresentino ai nostri occhi i volti degli attori straordinari che hanno dato se stessi per far vivere le scene di questo film, da Magalì Noel, a Pupella Maggio, a Ciccio Ingrassia e a tutti gli altri. E’ anche impossibile non considerare che questo film non sarebbe mai nato se non come l’opera collettiva, realizzata da specializzatissimi professionisti guidati da un genio, che era riuscito, infine, a tenere insieme tutto ciò che aveva fatto costruire, compreso il transatlantico, secondo la sua volontà visionaria, utilizzando quasi soltanto il mitico studio 5 di Cinecittà. Anche la musica di Nino Rota fu elaborata mentre, passo dopo passo, Fellini seguiva, approvando o no il risultato, fino a che il compositore non ebbe trovato gli effetti che il regista aveva in mente e che proprio perciò paiono connaturati al film.
Più volte Fellini smentì di aver voluto parlare di sé o della sua famiglia in questo film. Allo stesso modo egli spiegò più volte che la memoria degli anni dell’infanzia e della prima giovinezza è fondamentale per tutti, perché lì sono le radici di ciò che siamo diventati, ma in modo particolare lo è per gli artisti, poiché, senza quelle radici, non sarebbe possibile alcuna forma di espressione: in questo senso, perciò, indipendentemente da ciò che vuole raccontare, ogni creazione artistica è autobiografica. Sempre secondo Fellini, però, è impossibile mettere in moto la memoria senza uno sforzo potente dell’immaginazione, da cui riprende vita il passato: personaggi e fatti che ne emergono, quindi, non necessariamente corrispondono alla verità storica di ciò che è avvenuto, ma sono invece creazioni fantasmatiche dell’immaginario che ha ricostruito ciò che, in ogni caso, avrebbe potuto avvenire. Per questa ragione, io credo, i personaggi dei film felliniani sono tutti profondamente veri e nello stesso tempo appartengono inequivocabilmente al mondo della magnifica finzione cinematografica.
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Questa recensione, pubblicata sul mio blog il 20 novembre 2013, era stato un mio piccolo e modesto omaggio al grande regista, scritto su gentile invito degli organizzatori del Fellinianno concluso ai primi di gennaio 2014 e si era aggiunto ai ben più importanti contributi che avevano ricordato i vent’anni dalla morte di Federico Fellini, avvenuta il 31 ottobre 1993.
Lo ripubblico qui, senza variazioni, per ricordarlo a cento anni dalla sua nascita.
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