Regia di Ida Lupino vedi scheda film
Interessante e innovativo il modo in cui la regista riesce a mettere in evidenza l’inadeguatezza piccolo borghese dei 2 protagonisti chiamati a confrontarsi con la durezza e la crudeltà della vita: persone qualunque, tutt’altro che eroiche e perfettamente consapevoli di poter fare ben poco contro il maniaco armato di pistola che li tiene in pugno
Ida Lupino, con la sua presenza inquieta e nervosa, è stata una delle protagoniste fra le più importanti e qualificate - come attrice e non solo – di quella che viene definita “la più classica stagione del noir americano”. Sempre grande attrice, ma mai vera diva (Olivier Eyquem ha sottolineato come la forza delle sue interpretazioni risieda precipuamente in alcune caratteristiche peculiari del suo modo di essere: “Freddezza estrema, schizoide, tono secco, gesti bruschi, seduzione ostentata”), ha all’attivo memorabili interpretazioni in film fondamentali come Strada Maestra (il titolo che la impose definitivamente all’attenzione generale nel ruolo di una specie di mediocre Madame Bovary dei mercati generali che troverà a il coraggio di uccidere il marito troppo volgare), o l’imprescindibile Una pallottola per Roy (che la vedrà ancora una volta al fianco di Humphrey Bogart, nei cui confronti si esprimerà così: “Inizialmente non capivo questo uomo misterioso… mi sembrava sarcastico, ma non lo era: frequentandolo, durante la lavorazione dei film, ho capito che era sarcastico solo con chi gli piaceva. Siano diventati allora grandi, ma grandi amici!”), senza dimenticare per lo meno Neve rossa, Dollari che scottano, La jena di Oakland e I quattro rivali, tanto per citare quelli più significativi.
Nata a Londra da una famiglia di attori inglesi, a 15 anni era già a Hollywood, ma non riuscì mai ad accettarne le regole (se lo avesse fatto sarebbe forse stata per sempre “opacamente” destinata a rimanere una specie di Bette Davis di serie B). Per quanto refrattaria ad aperte ribellioni un po’ troppo urlate, fu comunque insofferente e indomita come poche altre, e capace per questo di sottrarsi a ruoli ritenuti “non conformi” e ad evitare di assoggettarsi a formule stereotipate un po’ “precotte”, dentro le quali non fu mai disponibile a farsi “rinchiudere” dal sistema degli Studios.
Caparbiamente determinata a seguire la sua strada, appena le condizioni produttive lo permisero, cercò un suo percorso autonomo, fondando con Collier Young (che fu anche uno dei suoi mariti) una compagnia di produzione indipendente, e diventando così, praticamente, la prima donna filmaker a 360°: produttrice e sceneggiatrice oltre che quotata attrice, si trovò ben presto, grazie proprio a questa coraggiosa scelta, a passare persino dietro persino la macchina da presa, un esordio abbastanza “casuale” (ma non imponderato) per colpa di una crisi cardiaca improvvisa (un infarto) che mise fuori gioco Clifton Elemer designato per la regia della sua prima produzione indipendente (Non abbandonarmi) che la costrinse a fare all’improvviso “di necessità virtù”. Le si attribuiscono comunque, oltre a tutte quelle ufficiali (per altro non numerosissime), compartecipazioni “registiche” anche per La jena di Oakland, dove sostituì per alcuni giorni il regista Harry Corner (e si vocifera che anche in Neve rossa ci abbia messo lo zampino, girando alcune scene al posto di Nicholas Ray). Altri progetti importanti come Dollari che scottano (per il quale le fu preferito Don Siegel) le furono invece sottratti per ragioni di opportunismo pratico (l’intento di evitare possibili tensioni sul set, visto che il coprotagonista della pellicola era Howard Duff, il suo terzo marito dal quale era in corso in quel momento proprio la causa di separazione). Per questo motivo allora, l’unico vero, completo contributo in veste registica della Lupino nel genere noir, resta questo La belva dell’autostrada (uno dei più apprezzabili risultati – se non il migliore in assoluto, della sua carriera) notevole per l’originalità del soggetto, ma soprattutto per il modo in cui questo viene trattato.
La Lupino è rimasta comunque sempre un personaggio isolato e difficilmente inquadrabile, guardata con “diffidenza” dall’establishment (non a caso Hollywood, nonostante le sue qualità indubbie, non le ha mai concesso, non solo un Oscar, ma nemmeno una nomination).
Femminista ante-litteram, non fu però nemmeno compresa in questo ruolo “anticipativo”, forse a causa del fatto che i suoi film evitavano sempre le trappole dell’ideologia fine a se stessa (e per questo furono accusati di non perorare a sufficienza la casa delle donne), anche se come produttrice ha invece il merito di aver privilegiato molti progetti scomodi proprio su questo versante, trattando temi fortemente scabrosi per l’epoca che parlavano di ragazze madri, di violenze sessuali, di bigamia o di improvvise malattie invalidanti come la poliomielite che troncavano carriere promettenti e avviate, rimanendo pero sempre lontana da quella che si può definire la fredda “enunciazione” di una tesi: “Si sforzò di mettere in discussione l’immagine passiva, spesso decorativa della donna nelle produzioni hollywoodiane. L’assoluta chiarezza con cui affrontava questi soggetti era senza precedenti nel cinema americano di quell’epoca. C’era un sentimento di dolore, di panico, di crudeltà che impregna ogni inquadratura di questi film, ma ci si trova anche la stessa misura di precisione e di profonda compassione di cui diede prova come attrice”. Sono parole di Martin Scorsese, che meglio di altre sottolineano proprio questo aspetto, e che al tempo stesso denotano chiaramente la sua stima e la sua ammirazione (meritatissime) nei confronti della Lupino.
Per tornare a La belva dell’autostrada, un thriller cupo e tesissimo con un budget ridotto all’osso che ha fatto scrivere a Renato Venturelli ne L’età del noir - ombre, incubi e delitti nel cinema americano, 1940 – 60 – Einaudi editore: “In La belva dell’autostrada, come in Detour, La Sanguinaria o anche in Ride e The Devil Thumbs, la frantumazione spaziale del noir procede a volte di pari passo con quella temporale, ribadendo la perdita di un rapporto unitario tra il soggetto, la realtà e la sua percezione”, si può subito dire che al centro c’è la storia (vera) di un autostoppista criminale, tale Emmett Meyers, che nel 1951 era stato arrestato per aver ucciso una serie di automobilisti abbordati nei sui spostamenti autostradali, un soggetto che può sembrare al giorno d’oggi po’ datato e persino scontato, per i tanti film sullo stresso argomento che hanno inflazionato nel tempo i nostri schermi con esiti per altro non sempre felici. Non era così ovviamente in quegli anni, e per di più la Lupino ha la straordinaria intuizione di raccontare la vicenda dal punto di vista dei due piccoli borghesi, che durante una battuta di pesca sui monti compiono una breve digressione per spassarsela un poco in Messico e subito verranno puniti dal destino: le conseguenze accidentali ma ineluttabili di un’azione non particolarmente edificante né esplicativa, che una serie di coincidenze fortuite (qui il sonno prolungato di uno dei due che fa saltare una sosta prevista) contribuirà a causare, permettendo l’altrimenti imprevedibile incontro con lo psicopatico- il famigerato serial killer – che avrà così modo di chiedere il passaggio, di sequestrali, di trascinarli con sé, di torturarli, pensando prima o poi di ucciderli come ha fatto con tutte le altre sue vittime. La sceneggiatura è scritta da Daniel Mainwaring (pur non accreditato, è certamente lui il vero artefice, anche se l’attribuzione ufficiale è alla Lupino stessa, oltre che a Collier Young, Robert L. Joseph e Lucille Fletcher), un autore che ha sempre privilegiato gli incubi provinciali. E il racconto infatti si snoda tutto on the road, praticamente su un unico set: quello costituito da un’auto condannata a vagare in un paesaggio desertico, dove le paure dell’americano medio si intersecano con uno scenario essenziale e a suo modo “selvaggio”, lontano dalla civiltà, mentre l’assassino è un personaggio taciturno che affiora all’improvviso dal buio e dall’inconscio “subliminale” che ha la consistenza dell’incubo, una specie di Orco con un occhio a palla che non si chiude nemmeno di notte, ma resta sempre mostruosamente aperto come un occulto “osservatore”, (gli anni in cui è stato concepito il prodotto, potrebbero addirittura farlo identificare nella paranoia tutta americana dell’olocausto nucleare, o persino in quella che veniva definita la “paura rossa”).
Il materiale è in ogni caso sufficiente per invitare a una seria riflessione sugli archetipi maschili della situazione, tanto più che a un certo punto uno dei due ostaggi (più precisamente quello interpretato da Edmond O’Brien) è costretto a scambiare i propri abiti con il killer, lamentandosi poi della loro puzza, evidenziando che in questo caso l’assassino seriale non è più l’uomo senza qualità legato all’anonimato urbano, come per esempio accadeva in Egli camminava nella notte, ma al contrario è appunto quel “prototipo” primario a cui si accennava sopra, più esattamente identificabile nella Bestia che emerge dalla natura arida del deserto per terrorizzare i pavidi borghesucci durante le loro piccole trasgressioni vacanziere. L’aspetto più interessante e innovativo sta però nel modo in cui, anche alle prese con questo soggetto pieno di stereotipi codificati, Ida Lupino sia capace di adottare con un piglio essenziale, quasi dimesso la strada dell’insolitamente “ordinario”, di mettere in evidenza cioè proprio l’inadeguatezza piccolo borghese di chi dovrebbe confrontarsi con la durezza e la crudeltà della vita: i due protagonisti “vittime”, sono infatti persone qualunque, tutt’altro che eroiche, impaurite, arrabbiate persino, ma perfettamente consapevoli di poter fare ben poco contro il maniaco armato di pistola che li tiene in pugno.
E il racconto si snoda in buona parte con dialoghi ridotti al minimo, senza riflessioni personali o recriminazioni (a parte una improvvisa invettiva del killer a metà film) né corpi stagliati plasticamente sugli sfondi naturali come stava invece accadendo in altri film di quel periodo (la riscoperta della natura noir anni cinquanta).
Girato in buona parte di notte (la fotografia è di Nicholas Musuraca) è formalmente controllatissimo nonostante la ripetitività degli ambienti (di fatto sempre e solo quell’auto nel deserto che diventa una specie di prigione senza sbarre) anche se poi per alcune scelte stilistiche, la vicenda finisce persino per assumere un particolare sapore quasi di avvertimento intimidatorio (la prima inquadratura per esempio, che mostra una pistola puntata contro lo spettatore, come a significare che… “potrebbe uccidere anche voi!”). Il pregio della Lupino comunque è ancora una volta quello di riuscire a di mantenere il racconto su un piano di credibile quotidianità: il suo è un noir che scaturisce non dalle convenzioni, ma da eventi eccezionali vissuti (filtrati) attraverso l’angoscia che provocano in persone tutt’altro che speciali, quella “povera gente” completamente perduta, senza qualità, il cui punto di vista è sempre stato quello che lei ha voluto adottare (prendere a riferimento) in ogni suo film, come appunto accade qui quando passa da una convenzionalità che potremmo definire mitologica (che è poi quella dello stereotipo) a una concretezza più consueta e normalizzata, e proprio per questo più terrificante. Il film è insomma sviluppato con una sensibilità tutta al femminile, rivelatrice della forte personalità della regista e della sua straordinaria abilità, tecnica e “creativa”, che è ancora in attesa di essere pienamente compresa e rivalutata.
Apprezzabile per la sua spiccia sobrietà, William Talman è un criminale che rimane nella memoria.
Edmond O’Brien e Frank Lovejoy sono a loro volta due piccolo borghesi pavidi e tremanti perfettamente in parte.
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