Regia di Raúl Ruiz vedi scheda film
Tableaux vivants in cui ci addentriamo, alla ricerca dell'interpretazione. La storia dell'arte, dei quadri immaginari collegati fra di loro da piccoli dettagli nascosti e un filo conduttore brutalmente interrotto da un quadro scomparso, forse rubato, ma che comunque celava in sé le ragioni del processo narrativo, simbolico e interpretativo. La voce narrante si interpone qui e lì per raccontare questo viaggio meta-figurativo nei meandri dell'espressione dell'artista, che cerca di comunicare e di decodificare o semplicemente riprodurre l'assoluta inarrivabilità conoscitiva dell'Io, che anche preso da fermo, anche nell'istantanea ante litteram dell'opera pittorica non riesce ad essere meglio analizzabile. 'Il quadro non fa allusioni, mostra' ripete il critico d'arte protagonista, che si inoltra in una sorta di museo vivente, in cui i dipinti escono fuori dai quadri e si distribuiscono sulla scena, 'quasi teatralmente'. O forse è l'uomo/interprete a penetrare nei dipinti e a ricrearne l'ambientazione? Conferire tale onnipotenza all'arte è anche conferire grande capacità all'uomo artista, genio romantico capace di attingere dall'infinito dell'essere per riprodurlo sottilmente e senza allusioni (o forse facendo solo allusioni, e mostrandole direttamente) nei suoi quadri a forti tinte chiaroscurali e enigmatiche, sprizzanti tonalità nonostante il bianco e nero, che dà a tutta la pellicola di Raul Ruiz un'atmosfera gotica-mortuaria realmente affascinante. Ma l'uomo/interprete ne esce straordinariamente indebolito, perseguendo un'arte che non fa altro che aggiungere mistero al mistero, perché riproduce l'enorme mistero della vita all'interno di una cornice, e ti costringe a viverne l'infiammabilità sulla tua stessa pelle.
Ruiz ci pone davanti a un bivio, il fallimento della nostra facoltà razionale (e su questo non è certo il primo) e il fallimento della nostra sensibilità artistica, che è ancora di più l'aspetto catastrofico che leggermente si insinua fra le immagini di un dipinto-film come questo. Col ripercorrere la storia della serie di dipinti della Cerimonia l'interprete confuta tutti i tentativi di intervento della voce narrante (un Ruiz spettatore che si disperde fra visione cinematografica e visione pittorica, quasi un Sokurov silenzioso e oscurato dal bicromatismo b/n) e impone la sua visione dei fatti che poi è una vera e propria Weltenschauung, o meglio è il ripercorrere quella dell'artista misterioso. E nella trama fitta di intrighi dei vari quadri sorge, a confrontarsi con l'assoluta capacità dell'arte, l'insieme degli eventi contingenti dei vari personaggi (gelosie, tradimenti, innamoramenti) riprodotti sicuramente con altri scopi, benché i dipinti si limitino a mostrare.
Lo stesso però avviene per Ruiz, costretto ad ammettere anche lui il vuoto profondo che sta via via assumendo la storia dell'arte e che il cinema, nella sua dinamicità, ripropone, nonostante riesca a cogliere i brevi movimenti che i personaggi dei dipinti fanno per assumere le loro posizioni (un po' come se il cinema fosse in grado di ripercorrere le idee compositive dell'artista). Ma il cinema è ancora più misterioso, forse perché ricalca ancora di più la verità, che anche nei nostri sguardi scattanti e 'registici' si rivela impenetrabile.
Incapace di comprendere di starsi confutando, e ammettendo infine che non siamo altro che creature incoscienti e inconsapevoli, l'interprete ci inviterà ad uscire dalla porta di ingresso del palazzo che è ormai stato intessuto dei misteri dell'arte pittorica, con le sue luci e le sue (dis)umanissime immobilità, e a noi non resterà altro che seguirlo in una selva oscura che si è inaridita e non è più la foresta di simboli alla Baudelaire, ma che semplicemente mostra la nostra cecità tanto compianta.
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