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La vita segreta delle parole

Regia di Isabel Coixet vedi scheda film

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La recensione su La vita segreta delle parole

di (spopola) 1726792
8 stelle

Appassionata e antiretorica ricognizione nella psiche e sui corpi di chi è stato vittima di eventi tragicamente drammatici come la tortura ed è scampato ad essa ancora vivo (seppur non indenne) anche se “impossibilitato” ad accettare il miracolo della sopravvivenza considerato quasi come una colpa infamante da espiare ad ogni costo.

Dolorosamente necessario questo “La vita segreta delle parole”, appassionata e antiretorica ricognizione nella psiche e sui corpi di chi è stato vittima di eventi tragicamente drammatici come la tortura ed è scampato ad essa “ancora” vivo (seppur non indenne) anche se “impossibilitato” ad accettare il miracolo della sopravvivenza, considerato quasi come una colpa infamante – una responsabilità e un “peccato” da “punire ferocemente” – per essere stato così “fortunato” da non aver condiviso con gli altri il destino crudele della morte, e per aver avuto la capacità di “resistere” nonostante tutto superando la soglia dell’orrore. Questa è la sintesi del personaggio di Hanna (una stupenda, intensa, indimenticabile Sarah Polley), superstite inquieta e audiolesa di disumane violenze subite durante il feroce scontro fratricida fra etnie diverse di una stessa nazione (la troppo in fretta “rimossa” guerra dei Balcani) che per dimenticare se stessa e le proprie ossessioni, a causa di una prolungata e imposta sosta per ferie che la costringe a stare lontano dal “rifugio” della ripetititivà angosciosa del lavoro all’interno della quale cerca di annullarsi fra reiterazioni esasperate e quasi morbose e manie compulsive che ne evidenziano la nevrosi, accetta di prendersi cura del corpo di Josef (un “controllato”, ineccepibile Tim Robbins), analogamente martoriato e momentaneamente intrasportabile (gravemente ustionato e colpito da temporanea cecità, per aver tentato di salvare il suo migliore amico nell’incendio accidentale improvvisamente scoppiato su una piattaforma petrolifera sperduta nelle immense lontananze dell’oceano). Dedicato alla fondatrice dell’organizzazione per la riabilitazione delle vittime della tortura, figura alla quale certamente si ispira il bellissimo cameo affidato a Christie, uno dei momenti più “intensi” e “necessariamente” disturbanti di tutto il film, l’opera della Coixet ha una struttura “visiva” esemplare, sorretta da uno sguardo acuto, penetrante e lucidissimo che riesce da solo ad acquisire la forza della denuncia e a “denudare” la sofferenza e le angosce di un gruppo di personaggi alla deriva, disancorati dal mondo e da se stessi, esiliati su quell’isola metallica ai confini del mondo. E’ semmai a mio avviso meno coerentemente compatta la scrittura dei dialoghi, soprattutto in alcune progressioni “drammaticizzate” (una buona parte del pre-finale ad esempio, specialmente alcune battute topiche messe in bocca a Tim Robbins, rappresenta una concessione alla eloquenza verbosa delle frasi fatte che guasta non poco la coerente unità dell’insieme). E anche alcuni dei personaggi di contorno del piccolo microcosmo che popola la piattaforma petrolifera abbandonata e distante (stupefacente metafora di “dissociazione” e di “fuga” claustrofobica nelle proprie paure e nelle proprie debolezze) assumono le caratteristiche unidimensionali e limitative del “bozzettismo schematizzato” che rischia di scivolare verso il “macchiettismo”, primo fra tutti il cuoco – per altro correttamente tratteggiato da Javier Camara - banalizzato da improbabili fissazioni culinario-musicali, quasi un contrappeso analogamente alienato ma meno perturbante, per alleggerire un poco la tensione. La storia “racconta” l’avvicinamento progressivo di due solitudini incomunicabili, reso possibile dalla antitetica mutilazione sensoriale di chi “può spengere le parole” semplicemente girando l’interruttore di un apparecchio acustico e di chi è momentaneamente impossibilitato a vedere e quindi a “riconoscere”. Sono proprio queste le prerogative che consentono ad Hanna (le cui ferite psichiche sono ben più gravi delle altrettanto profonde cicatrici che solcano il suo corpo, rivelate in una delle scene più toccanti - forse “discutibile” sotto il profilo della tenuta stilistica dell’opera, ma singolarmente importante e sconvolgente - resa incensurabile e crudelmente dolorosa proprio dalla sorprendente tenuta controllata della recitazione della Polley che riesce a farci percepire l’orrore in un crescendo di tensione emotiva pudicamente trattenuta, senza scivolate nel melodramma e nel pietismo) di confrontarsi col dolore dell’altro e di “aprire” finalmente il contatto empatico, allentando per un poco le chiusure che la costringono a vivere in quella surreale dimensione priva di comunicabilità e di cedimenti che spesso le impongono di privarsi persino dell’ascolto del “suono” delle parole. L’abbandono è allora possibile, Hanna può riscoprire nuovamente il dolore del ricordo, trovare un momentaneo conforto in quel corpo maschile analogamente martoriato, appoggiare la testa sul suo petto, lasciarsi finalmente andare e dare sfogo alla rivisitazione quasi spersonalizzata di quella “tragedia” feroce e inaudita che non le lasciato nemmeno il “privilegio”di morire, con la certezza di non essere poi “scoperta”, “identificata” e quindi “ritrovata”… e il dramma, dopo quel lento dipanarsi che già aveva permesso di “cogliere” visivamente molto di più di quanto le parole stesse non avrebbero potuto farci comprendere, ci precipita nella rievocazione di orrori inconcepibilmente reali, che fanno parte (purtroppo) del nostro presente, che si perpetuano ancora, sempre e comunque, in qualche parte “dimenticata” del mondo, che continuano a “segnare” vittime innocenti che non avranno poi nemmeno il conforto del riconoscimento e della reazione sdegnata o della commozione consolatoria, come è accaduto per quelle dell’olocausto (e magari le dimensioni complessive saranno meno significative, ma l’efferatezza, l’insensatezza dolorosa del non “capire” le ragioni di tanta crudeltà resteranno analoghe e profonde e forse ancor più rabbiosamente incomprensibili, incapaci come siamo di “accettare” la palese evidenza della assolta malvagità che contraddistingue e identifica il genere umano, non più una aberrazione di pochi, ma una persistente caratteristica identificative di una razza che pretende di essere considerata “superiore”. Una maggiore attenzione alla sceneggiatura, sarebbe stata allora davvero auspicabile (per evitare “cadute” e imbarazzi”) e anche una più coraggiosa opera di “limatura” indirizzata verso una chiusura ancor più aperta e sospesa, con l’eliminazione di tutta la parte del “ricongiungimento” e il passaggio consequenziale e diretto salvo pochissimi “aggiustamenti intermedi”, dalla agghiacciante scena con la psicologa di Hanna nell’archivio dei sopravvissuti alla guerra dei Balcani, alle immagini conclusive, quasi sospese fra sogno e realtà. Bellissima e magnificamente integrata con la qualità superlativa delle immagini (sapientemente manovrata direttamente dalla regista la camera a spalla con la quale vengono tradotti visivamente i silenzi e le vibrazioni, più eloquenti delle parole stesse, spesso qui inutilmente ridondanti e superflue) il contributo musicale che mischia ed amalgama pezzi di disomogenea provenienza rendendoli perfettamente conformi con il disegno complessivo dell’opera e un inappuntabile contrappunto sonoro che è molto di più di un semplice “commento” di supporto.

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