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V per Vendetta

Regia di James McTeigue vedi scheda film

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(spopola) 1726792

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La recensione su V per Vendetta

di (spopola) 1726792
6 stelle

Di materiale incandescente dentro a questo racconto di soprusi e di oppressioni in nome di una presunta necessaria sicurezza, ce ne sarebbe stato parecchio ma a mio avviso è stato utilizzato se non proprio male, in maniera abbastanza ovvia. Per me dunque una pellicola troppo dispersiva, dove lo sforzo produttivo non è pari ai risultati raggiunti.

Molto rumore per nulla si potrebbe dire, o ancora tanto fumo e poco (anzi pochissimo) arrosto in questo cocktail che mischia e confonde temi e stimoli di differente origine e contaminazione (per altro non sempre perfettamente amalgamati fra loro) da Leroux a Shakespeare (più volte esplicitamente citati), da Orwell a Bradbury, da Zorro a Mein Kampf, fino ad arrivare al cinema di Gilliam o del Raimi di Darkman – e l’elenco potrebbe essere ancora più ampio e variegato se si riuscissero a scindere davvero tutti e fino in fondo gli ingredienti di base che compongono la miscela. Beh, si capirà già da questo esordio che mi aspettavo qualcosa (molto) di maggiormente pregnante e significativo del “frullato” finale propostoci, velleitaria trasposizione in immagini cinematografiche della ben più coinvolgente Graphic novel di Alan Moore e David Lloyd del 1989 (nuovamente disponibile in edicola allegata al numero di questo mese di XL di Repubblica). Più che “inferiore alle aspettative”, “un’occasione mancata” direi, perchè a mio avviso (e le impressioni, i pensieri, le idee sono come al solo opinabili in quanto personali e come tali soggettive) il film - per altro suggestivo e “affascinante” in più di un segmento (poetica e lancinante tutta la parte dedicata alla storia d’amore delle due lesbiche, tanto per fare un esempio) - riesce a trasmettermi ben poco della carica eversiva del fumetto originale, nato da una profonda, sentita necessità di opposizione e di contrasto al conservatorismo esasperato della Thatcher che stava soffocando l’Inghilterra in quel periodo, producendo danni irreparabili e “pericolose minacce” per il futuro (e una rilettura aggiornata che tenesse conto di tutto quello che è successo nel mondo negli anni successivi, compreso l’11 settembre e conseguenti “misure protettive” messe in atto, avrebbe davvero potuto rendere ancor più feroce e attualizzato l’intervento critico). Difensore di ogni diversità perseguitata (non solo ideologica, ma anche comportamentale) il fumetto racconta le gesta di un giustiziere sfigurato - supereroe invincibile e intemerato - che si nasconde dietro la maschera di Guy Fawkes, anarcoide eroe popolare inglese arrestato e impiccato dopo il fallimento della congiura delle polveri del 1605 (del quale il nuovo “protagonista senza volto” ne emulerà le gesta con maggior successo) che, in una Inghilterra caput mundi e “postatomica” vessata da una dittatura assolutamente “riconnotabile” in un contesto degenerato e totalitario riecheggiante i temi e le modalità di un nazismo futurizzato e per questo capace di strumenti di controllo visivi e sensoriali che non lasciano possibilità di salvezza (o di speranza) per nessuno, si assume l’onere di vendicare non solo i propri torti subiti, ma anche quelli di ogni minoranza anche ideologica invisa al regime (e quindi di difendere i diritti di ogni oppresso, perseguitato e vittima, sia esso straniero, omosessuale o semplicemente “oppositore resistente” o portatore dei “ricordi” di una conoscenza diversa) per ripristinare legalità effettiva, libertà e giustizia. I temi forti contenuti in una storia dove tutto è controllato e manipolato dall’alto (che raffigurano e precognizzano una società in divenire che ha molti punti di riferimento – ovviamente esasperati ed amplificati - con quelli della nostra realtà quotidiana già pericolosamente avviata verso quella deriva, un processo di “condizionamento anche mentale” implacabilmente in corso d’opera, che ci circonda e ci avvolge, uno status mediatico stravolgente in continua progressione nel quale ci troviamo ormai immersi quasi fino al collo e che “subiamo” senza accorgerci che ogni giorno che passa ci avviciniamo di più all’abisso) avrebbero avuto l’oggettivo bisogno di una mano registica “capace” di dare un segno analogamente pregnante, di lasciare una traccia che riuscisse ad essere davvero “politicamente disturbante”. Qualcosa di più e di meglio insomma di una avveniristica favola nichilista e romanticheggiante, per altro nemmeno sufficientemente “fantascientifica” (e in questo fortemente penalizzata dall’inadeguata visionarietà dell’insieme molto “retrò” e persino poco originale, che va poco oltre la claustrofobia delle immagini di riprese effettuate spesso in notturna e in gran parte realizzate in interni dai colori opprimenti di scenografie sontuose ma spesso austere e quindi prive della necessaria “ridondanza barocca” che il progetto, spingendo il pedale fino in fondo, avrebbe richiesto).Qui invece (e si avverte) non abbiamo (purtroppo) il genialoide “narratore” capace di provocare e di incidere senza titubanze, risulta incerto il “tocco” personalizzato che potrebbe rendere “grandioso” l’afflato poetico della materia, dando una consistenza davvero disturbante alla denuncia. Certamente le “qualità” superiori necessarie all’impresa, non fanno parte (e non possiamo fargliene ovviamente una colpa) del dna del corretto e scrupoloso quanto si vuole, ma scarsamente talentoso James McTeigue, diligente “esecutore” di un progetto che porta l’evidente impronta dei fratelli Wachoski che hanno però preferito non esporsi fino in fondo in prima persona, delegando la realizzazione scenica della compiutezza finale del progetto all’anonimo mestiere del loro assistente di altre precedenti avventure più fortunate (ma qui davvero il miracolo Matrix - parlo del primo ovviamente, non certo dei due sequel malamente costruiti a tavolino per cavalcare l’onda del successo del primo capitolo già perfettamente compiuto in sé - non si ripete!!!). Verboso e a volte ripetitivo, il film rimane troppo “ancorato” in prossimità del “Fantasma dell’opera” e similari, nella definizione del mito perpetuato e immarcescibile della “bella e della bestia” con tanto di “sacrificio finale”, un approccio “sentimentale” questo, che fa passare in sott’ordine ogni altro riferimento, compreso appunto il complesso apparato politico che dovrebbe connotare e caratterizzare il racconto, purtroppo relegato allo sbiadito riferimento di contorno, quasi un semplice presupposto necessario per “giustificare” e rendere credibile lo sviluppo del “rapporto particolare” che legherà i due protagonisti (ancora una volta, una storia d’amore contrastata e impossibile e poco più). Alcune delle “citazioni” iconografiche e “sonore”, sono poi a mio avviso percettivamente imbarazzanti (parlo sempre ovviamente delle mie personali impressioni, non pretendendo ovviamente di voler universalizzare il concetto) e non mi riferisco tanto alle immagini filmiche relative alla mitica edizione del “Conte di Montecristo” con Robert Donat, che possono assumere anche un valore di “riferimento critico” necessario nel contesto del racconto, visto le assonanze di alcune situazioni, quanto a quelle scivolate “ruffianamente patetiche” intorno al Juke box nel sotterraneo sulle note suadenti dell’intramontabile Cry me a river (cantata da July London immagino: la voce mi sembrava la sua ma mi è stato impossibile verificarlo perché i titoli di coda sono stati colpevolmente “censurati” alla proiezione del tardo pomeriggio alla quale ho assistito in sala), un “ricatto emozionale” biecamente ricercato e ottenuto, che mi è sembrato, in questo contesto già fortemente esasperato, fra rose troppo rosse e “decadenze” tristemente malinconicheggianti, una inaccettabile concessione all’ovvio, una troppo scoperta e insistita ruffianeria finalizzata a risvegliare “l’anima silente” che le immagini da sole si pensava forsenon fossero capaci di far palpitare nella maniera dovuta. Il parterre degli attori impegnati nell’impresa è decisamente di prim’ordine, importante e variegato come si conviene, da Frey (nuovamente confinato nel consueto e ripetitivo ruolo che troppe volte lo contraddistingue e lo limita, perché ormai schematicamente ripetitivo) a Stephen Rea (manierato e convenzionale), da una Portman qui singolarmente sottotono (ovviamente ancora una volta così bella e conturbante da riempire gli occhi e la mente, ma decisamente al di sotto dei suoi abituali standard di resa), a un Hurt che è poco più di una apparizione mediatica che non consente una adeguata definizione del personaggio al di là dell’ovvio cliché (singolare e certamente “voluto” questo riferimento inverso rispetto all’utilizzo dell’attore in “1984”). Per il protagonista Weaving, poi rimane davvero difficile esprimere un giudizio: perennemente coperto da una maschera che impedisce di immaginare anche i minimi, impercettibili movimenti dello sguardo, appesantito da costumi che non consentono di cogliere i “messaggi” trasmessi dal corpo, è privato nell’edizione in sala, a causa del doppiaggio, anche della sua peculiarità vocale: Non esistono quindi elementi valutativi della prova (potremmo semmai provare a definire il valore del doppiatore Gabriele Lavia, altro compito assai arduo in questa circostanza: essendo mancanti gli altri elementi di riferimento visivo, non possiamo che auspicare che la sua performance sia stata per lo meno “ispirata” e conforme). Dobbiamo quindi necessariamente lasciare sospeso il giudizio, per lo meno fino all’uscita del dvd che permetterà (a chi avrà voglia di farlo) di riappropriarsi della vocalità originale dell’interprete ricomponendone l’identità completa. Certo che di materiale incandescente dentro a questo racconto di soprusi e di manipolazioni, di “terrorismo di stato” e di oppressioni individuali e collettive, di soppressioni di libertà in nome di una presunta necessaria sicurezza, ce ne sarebbe stato tantissimo (ma è tutto già contenuto e meglio espresso nel fumetto di partenza). Ci sarebbe stato anche per permettere una più riflessiva analisi sul problema dei “terrorismi contrapposti” così drammaticamente attuale dopo l’episodio delle Torri gemelle, e dispiace che l’opportunità non sia stata sfruttata nella maniera dovuta: quello che emerge qui, come ho già cercato di sottolineare, è spesso risaputo (fino dai tempi remoti di Nerone e dell’incendio di Roma,, cambiano solo le modalità e i tempi e poco più, in un contesto dove per altro nemmeno tutti i tasselli riescono sempre a trovare la loro giusta collocazione e la parte che maggiormente coinvolge ed appassiona rimane confinata nei dialoghi e in qualche momento (ne abbiamo giusto già citato uno poc’anzi, ma evidentemente – e per fortuna – sono molti di più, disseminati all’interno di una pellicola troppo dispersiva, dove lo sforzo produttivo non risulta pari ai risultati raggiunti).

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