Regia di Fritz Lang vedi scheda film
Il Cinema smette di essere un semplice registro espressivo e diventa un’arte completa nel momento in cui decide di raccontare le sue storie al di fuori dei vincoli stilistici e tematici che definiscono i generi. Se un noir richiede i bassifondi come ambiente e i detective o i gangster come eroi, non è detto che non lo si possa accontentare di striscio, visitando i suoi luoghi e personaggi preferiti come parte di un disegno più grande, che comprende anche gli aspetti collaterali dell’esistenza, quelli che sono meno in sintonia con l’ambiguo fascino del sottobosco metropolitano. L’accoppiata Lang-McGivern abbandona il tradizionale tema della vita perduta come vocazione, come scelta avventurosa, come cupa filosofia destinata a pochi, per abbracciare l’idea – ben più realistica e coraggiosa – della disgrazia come banale origine della deriva morale, della fuga nella clandestinità, dell’uscita dalla normalità della società civile. Bannion è un comune poliziotto, un marito ed un padre di famiglia come tanti, che scherza a tavola con la moglie e gioca con i mattoncini insieme alla bambina, prima che una tragedia lo trasformi in un individuo assetato di vendetta, impegnato in una spietata caccia all’uomo. La rabbia e il dolore ne trasformano il comportamento, pur non sconquassandone l’umanità, la capacità di amare, di comprendere, di aiutare chi ne ha bisogno. La ferita che gli si è aperta nel cuore è un fuoco che chiede di essere spento, e per lui diventa una ragione più potente di quella che impone il rispetto delle leggi e protegge, prima della condanna giudiziaria, anche i peggiori delinquenti. In Bannion l’impulso si fa procedura, il desiderio si traduce in piano e in questo non si scorge nulla della leggendaria freddezza che contraddistingue, nei classici del genere, gli ideatori di diabolici complotti criminali o di raffinate strategie investigative. La mente geniale e calcolatrice è una supposizione teorica che consente, all’autore di un thriller, la costruzione di trame originali e complesse. Ma è comunque un artificio letterario, che non tiene conto di quanto, nella vita reale, la temerarietà, esattamente come l’errore, scaturisca fondamentalmente dalla debolezza: una caratteristica che accomuna tutti gli esseri umani, e che sovverte la romanzesca distinzione tra buoni e cattivi, tra vincitori e perdenti, tra dominatori e sudditi. Il grande caldo è forse proprio la lamentevole epopea della fragilità, che non risparmia nessuno, e che fa sì che ognuno finisca prima o poi per esporre, agli occhi del mondo, il proprio lato corruttibile: un funzionario di polizia in affari con la malavita, un faccendiere affetto da un’incontrollabile perversione sessuale, una bellissima donna dal volto deturpato.
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