Regia di Jean Renoir, Jean Tédesco vedi scheda film
Il paese dei balocchi può essere freddo e pieno di tristezza: un paesaggio di cartapesta percorso dal fremito nervoso di uno sguardo infantile, che cerca una speranza di felicità nell’incontro con gli occhi altrui. Quell’irrequietezza è la tenue vibrazione della fragilità, che si esprime con un palpito timido, goffo e ribelle. La giovane protagonista di questa storia è una figura debole ed inconsistente come le scatolette di fiammiferi che tenta inutilmente di vendere ai passanti. Jean Renoir la ritrae tenera e indifesa come un fuscello in balia del vento, tanto sottile che basta un soffio per piegarlo od abbatterlo. La ragazzina osserva e sogna, volteggiando come una ballerina in mezzo ad un universo di sassi, attraversato dal passo pesante del potere, della ricchezza, della volgarità, dell’indifferenza. Anche il suo tremare per il gelo e il suo gesticolare nel delirio fanno assumere al suo corpo le movenze di una danza, languida, come lo è la gioia stemperata dalla stanchezza. Il suo stupore è un velo agitato dalla brezza, che si posa sulle cose piccole e semplici - come le bambole e i soldatini esposti in una vetrina - e perciò non appartiene a questo mondo. Le sue fantasie si sottraggono alle leggi terrene, e infatti sfidano la forza di gravità: sono popolate di equilibrismi ed acrobazie, di salti, di voli in punta di piedi, i cui ritmi sono coreografie messe in scena da giocattoli e burattini. Nelle sue allucinazioni di bambina, lo spettacolo è un’energia onirica che anima con grazia la materia inerte. Del resto, per chi sta per soccombere agli stenti, la vita è un anelito surreale, che deve resistere alla minaccia incombente della fine, contrastando quanto più a lungo possibile, con il suo frenetico fantasticare, lo svanire dell’illusione. Questa è la rappresentazione dell’agonia: la bellezza che fugge inseguita dalla morte, e lotta per restare in cielo, per non precipitare al suolo, dove l’aspetta la dura concretezza di un mondo ottuso e insensibile. In questa libera interpretazione cinematografica della celebre fiaba, scritta da Hans Christian Andersen nel 1845, simbolo e visione si fondono, trascinandosi dietro, nella loro dimensione metaforica, tutta la portata umana del dramma. In tal modo la vicenda reale si traduce in una favola autenticamente tragica, nella quale, però, la sofferenza si sublima nel pathos volatile della poesia. La leggerezza è l’accento onnipresente che solleva il dolore dal suo letto di lacrime, per innalzarlo alle vertiginose altezze dell’immaginazione, dove ogni cosa è labile, cedevole al tatto, e si può modificare con una carezza. Lassù si può trovare riparo dalla miseria e dalla fame, perché l’atmosfera è fatta di un’avvolgente e morbida magia, in cui tutto è impalpabile come una piuma o girevole come una giostra, e quindi nulla può davvero fare male.
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