Regia di Edmund Goulding vedi scheda film
Quando, a 19 minuti dall'inizio, entra in scena la Garbo, la parata di star è finalmente al gran completo. Del resto, che la Metro Goldwyn Mayer, lo studio “con più stelle di quante ve ne siano nel cielo”, puntasse più sulla concentrazione dei suoi divi che sull’impianto narrativo appare oggi fin troppo evidente. Grand Hotel, tratto da una pièce non memorabile di Vicky Baum, è un tipico film corale con episodi a incastro tenuti insieme da una sceneggiatura non di rado dozzinale. Emblematico in questo senso il dialogo tra il barone Geigern e la ballerina Gruzinskaja, in quella che pure è una delle scene più memorabili non solo del film ma di tutto il cinema degli anni '30: "Tu sei triste!" – "Sì, triste!". "E sola!" – "Tanto, tanto sola!". Roba da far ridere i polli, se non fosse che a pronunciare queste battute è una coppia da capogiro: John Barrymore e la Garbo, i cui profili mitici appaiono per la prima volta rivolti l'uno verso l'altro. Se Grand Hotel ha retto alla prova del tempo meno bene di tanti altre opere degli anni '30, apparendo oggi un film più importante che riuscito, è proprio perché la sua sola forza d'attrazione - la compresenza di tante star dell'epoca la cui aura carismatica è ormai sfumata (quanti ricordano più Lewis Stone, Jean Hersholt o gli stessi fratelli Barrymore?) - non basta più. I personaggi, pur essendo generalmente privi di spessore, sono interpretati da quasi tutti i divi con mestiere, con l'unica eccezione di W. Beery, pessimo nel rendere un capitano d'industria dal piglio caricaturalmente teutonico. La Garbo gigioneggia un po' troppo nella scena del risveglio, riportandoci idealmente ai tempi della Bertini, ma si rivela sublime poco dopo come donna sull'orlo di una crisi di nervi che cede all'amore per la prima volta. Le scene con J. Barrymore, probabilmente il miglior partner che abbia mai avuto, e la commovente sequenza finale della partenza dall'hotel nella vana speranza di ricongiungersi presto con l'innamorato sono tra le migliori della sua maturità artistica. Buona anche la prova di J. Crawford che, nei panni della stenografa di Flaemmchen (Fiamma, nell'edizione italiana), dà vita al personaggio meno manierato del film, ma soprattutto iscrive negli annali del cinema l'espressione più celebre di tutta la sua carriera: lo sguardo di puro terrore che, davanti al cadavere del barone, le fa spalancare spasmodicamente i grandi occhi rendendola incapace di pronunciare verbo. Il risultato di Grand Hotel è esattamente quello a cui la MGM aspirava: un prodotto del più alto artigianato hollywoodiano che ancora oggi ispira rispetto reverenziale per il mestiere con cui è confezionato, ma fatalmente superficiale e limitato per lo più, sul piano registico, al contemperamento delle diverse performance attoriali. Paradossalmente, ciò che ancora oggi in Grand Hotel è capace di far fremere ogni cinefilo che si rispetti, è un elemento del tutto non intenzionale: il tono tra il fatalistico e il premonitore di certe battute della Garbo ("Bisogna sapersi eclissare al momento giusto" o il mitico "Voglio essere lasciata sola") e quelle di un J. Barrymore ancora grande ma ormai minato dagli stravizi ("Non ho più tempo"). Meno di 10 anni dopo, sia pure per motivi diversi, quelle parole tristemente profetiche si sarebbero avverate per entrambi.
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