Regia di Michele Soavi vedi scheda film
Giorgio Pellegrini, nome di battaglia “Che Guevara”, rientra in Italia dopo la latitanza sudamericana da extraparlamentare di sinistra. Baratta il suo reintegro con informazioni sui suoi compagni di militanza a un dirigente senza scrupoli della Digos, che lo ricatta coinvolgendolo in crimini e omicidi a sangue freddo. Nella corsa ad arricchirsi, niente e nessuno viene risparmiato. Anzi, Giorgio, tormentato dal suo passato barricadero (associato a un uso insistito della title track) si compiace di essere così carogna. Dal bel romanzo omonimo di Massimo Carlotto, una vivida ricostruzione delle trame invisibili che rendono opulento il Nordest tra criminalità e politica. Del resto, che la narrativa di genere abbia soppiantato il giornalismo d’inchiesta nel nostro Paese non è una novità. La polizia incrimina, la legge assolve, diceva un poliziottesco ‘70. Oggi quella malavita di rapine e sequestri si è ripulita, globalizzata, ma il senso è lo stesso. Non a caso il film si apre con la lettura degli articoli del codice penale sulla riabilitazione, vuote parole davanti alla concreta possibilità di riciclarsi l’immagine. Il protagonista è la summa di tanti rottami ideologici che oggi sguazzano pasciuti, paradigmi di un’ideologia della prevaricazione e dell’accumulazione spregiudicata e applaudita. Placido, un bastardissimo poliziotto che sarebbe piaciuto a Di Leo, Ferrari una dolente femme fatale di provincia. Soavi si concede momenti di virtuosismo e di horror (agli antipodi della compostezza del Giordana di La meglio gioventù, che utilizzava meglio anche Boni, qui in lotta con la voce over perenne), in cerca di una spettacolarizzazione frenata da una sceneggiatura troppo preoccupata della chiarezza. Grande finale funereo con il trionfo del Male che si propaga come un virus.
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