Regia di Sergio Rubini vedi scheda film
La terra come metafora familiare di una tragedia che può anche renderci ridicoli. All’ottava regia Sergio Rubini realizza il suo film più ambizioso e maturo, più carnale e liberato. Come se il suo cammino all’indietro alla ricerca delle proprie radici meridionali avesse finalmente captato segnali in chiaro. Per l’escamotage narrativo si affida a modelli assai alti: da La sfida del samurai di Kurosawa (che poi divenne Per un pugno di dollari) al Padrino, passando per almeno un paio di strette parentele cinematografiche di coriaceo, romantico spessore: i Fratelli di Rosi e di Ferrara. E dunque, il “samurai” che torna nel villaggio abbandonato anni prima è questa volta un professore di filosofia trapiantato a Milano, costretto a tornare in Puglia per sistemare alcune beghe familiari. Il Mezzogiorno di fuoco (svelatissimi i rimandi western) che si ritrova davanti agli occhi e che ricomincia a calpestare con timoroso smarrimento si trasforma nel sud di se stesso, in un vortice di ricerca che lo coinvolgerà definitivamente. La cinepresa di Rubini, svincolata e coppoliana, pensa in grande. E la scelta del cast lo ripaga in ciascuna delle sfumature cesellate: Bentivoglio è il maggiore che si scopre patriarca, Venturiello il fratellastro che insegue amore sogni e donne, Briguglia la giovinezza idealista, Solfrizzi il corrotto indebitato, Giovanna Di Rauso la purezza che reclama attenzioni. Mentre Rubini - nei panni di un volgare e raccapricciante usuraio - è il marchio indelebile di quanto si possa nuclearizzare il mondo contagiandolo con il male. Le musiche di Pino Donaggio suonano tra Bernard Herrmann e Morricone.
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