Regia di Stephen Gaghan vedi scheda film
Film difficile e denso di materiale, Syriana tenta di costruire un ritratto poliedrico del mondo contemporaneo, in cui la mondializzazione diventa la differenza di prospettiva su un medesimo argomento, crea un prisma le cui diverse sfaccettature si illuminano reciprocamente in un più definito senso. Strutturato come un’indagine giornalistica, il fulcro del film si sposta di continuo, alternando luoghi e protagonisti diversi in sottotrame afferenti e tutte originate, a vario titolo e grado, da quella che potrebbe essere soltanto una notizia marginale sulla pagina finanziaria di qualsiasi giornale, ovvero l’acquisizione di una società da parte di un’altra.
Ma un unico elemento, costante ed indelebile, raggruppa tutti i personaggi e ogni situazione: il denaro, ed il suo possesso. Ossia il potere, con ogni sua declinazione, come l’ambizione, la corruzione, o l’assenza di scrupoli. L’effetto domino derivante dall’accorpamento societario acquista rilevanza geopolitica se le compagnie sono importanti multinazionali petrolifere, americane e cinesi. Come ogni convergenza finanziaria, l’acquisto comporta la fuoriuscita di molta manodopera, la cui insoddisfazione può essere sfruttata e incanalata dalle illusioni fondamentalistiche a fini terroristici. Un emiro illuminato e indipendente dagli Usa deve essere eliminato per non ostacolare ottime prospettive di arricchimento ed il perpetuare dello sfruttamento della popolazione. Le indagini interne degli apparati amministrativi americani possono essere pilotate da avvocati consenzienti per non intercettare fonti di lauto guadagno all’ombra della legalità. La CIA lavora al solo interesse economico dell’America, tralasciando qualsiasi impegno antiterroristico per privilegiare il fluire delle banconote. Avvocati, operatori finanziari, agenti segreti, emiri, sottoproletari: nessuno si salva nel quadro generale, ognuno è al contempo nemico e collaboratore, complice e traditore. Ogni personaggio, inquadrato nel proprio microcosmo privato e professionale, rimane un coacervo di contraddizioni, di umanità e arroganza, nel contrastante chiaroscuro degli affetti e degli interessi. Ogni azione sviluppa conseguenze spesso mortali per altri esseri umani, le cui vite non sono di alcuna importanza e sacrificabili sull’altare del dollaro, come sono specularmene strumentali le morti dei kamikaze immolatisi a richiesta per oscuri principi. Anzi, la consapevolezza dei propri gesti, l’onestà di comportamento diventa un atteggiamento pericoloso, come per l’agente operativo in Medio Oriente interpretato da George Clooney, i cui dubbi diventano elemento di potenziale destabilizzazione dell’ordine generale. E’ un mondo intimamente conservatore, basato sull’ossessione dello status quo, che vive in un eterno presente nel quale mai si affaccia la terrificante ipotesi di un cambiamento, di un nuovo e forse migliore equilibrio. E la democrazia ha definizione variabile, elastica a seconda del momento e dell’interesse storico, una facciata sfregiata dai colpi di pistola ma tenuta insieme dal collante del greggio e della carta moneta. La coscienza è un lusso che l’economia di mercato non si può permettere, perché gli interessi sono sempre enormemente superiori al valore di un individuo, al monetizzabile costo della sua vita, vuoto a perdere nel riciclo dei giochi di potere per il possesso degli ultimi barili di un petrolio in rapido esaurimento.
A dispetto di tanto imponente materiale, dei numerosi personaggi con un cast di primo piano in cui è difficile individuare la preminenza di un nome o di un ruolo, di argomenti impegnativi e di momenti di tensione, il film ha però un andamento antidrammatico. Il regista si allontana dalla scena nel momento culminante, lasciando spazio al nero dello stacco o della dissolvenza, non aggredisce lo spettatore con effetti immediati ma lasciandogli il tempo e la necessità di una rielaborazione, la libertà di formarsi un’idea attraverso quelle inquadrature mancanti e un’immagine propria tramite i nessi da tessere tra le diverse trame.
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