Regia di Stephen Gaghan vedi scheda film
Il regista mostra un'eccezionale perizia tecnica nel comporre le immagini: utilizza spesso la macchina a spalla costruendo sequenze brevi ma pressanti, cariche di una sotterranea tensione che si amplifica progressivamente e diventa sempre più vorticosa e avvolgente via via che ci si avvicina alla conclusione.
Siamo tutti all’inferno e non lo sappiamo: ci stiamo dentro fino al collo, e fingiamo di non saperlo. Syriana, avvolgente puzzle in avvicinamento progressivo, ha la capacità di farci percepire la profondità dell’abisso, l’inappellabilità di azioni e comportamenti che la ragione renderebbe ingiustificabili e criminali ma che le logiche del potere rendono invece “naturali” e necessari, quasi del tutto metabolizzati da questa umanità lobotomizzata che ci rappresenta e ci circonda, così tanto “normalizzati” da non riuscire più nemmeno a suscitare orrore ed avversione e persino stupore, quando casualmente piccole schegge impazzite (che sono semplicemente la punta estrema dell’iceberg) trovano la faticosa emersione nella cronaca e nei resoconti giornalistici. Stephen Gaghan per la prima volta dietro alla macchina da presa (un altro formidabile esordio di questa stagione piena di piacevoli sorprese) partendo dal romanzo autobiografico “See no Evil” di Robert Baer, tradotto come al solito con imprecisione “commerciale” ne “La disfatta della Cia” per il nostro mercato interno, rappresenta con implacabile perizia tecnica, la amplificata scacchiera del mondo, attraverso segmenti molto concisi e all’apparenza slegati fra loro, ma che piano piano si ricongiungono progressivamente integrandosi e rendendo evidente il disegno e la osservazione critica e dolorosa dell’autore, fino a fondersi in un unico terrificante filone che rende apocalittica la visione di questa “mondializzazione” americanizzata dove le enunciazioni machiavelliche del “fine che giustifica i mezzi” (già di per sé abbastanza aberranti) sono portate alle estreme conseguenze. Il regista, affascinante e sintetico, mostra una eccezionale perizia tecnica nel “comporre” le immagini, utilizza spesso la macchina a spalla costruendo sequenze brevi ma pressanti, cariche di una sotterranea tensione che si amplifica progressivamente, diventa sempre più vorticosa e avvolgente via via che ci si avvicina alla conclusione, quando tutti i nodi arrivano finalmente al pettine e, i tasselli si incastrano tutti fra loro in maniera perfetta e senza sbavature, rendendo il quadro chiaro e definitivo. L’atto di accusa è spietato e coraggioso e allo stesso tempo rabbiosamente impotente: la tela non è più districabile, le connessioni così ramificate da non poter essere estirpate perché il mondo (e il potere che lo regola, politico ed economico) è così sconfortantemente compromesso, così votato al “male” e alla dannazione” da rendere impossibile e inevitabilmente perdente, ogni tentativo di contrasto che potesse diventare concretamente preoccupante e tale da far prevedere una probabile conseguenza destabilizzante degli equilibri e dei rapporti di forza e di dominio (e la pellicola esemplifica bene i “mezzi” disponibili per avversare e distruggere chi si oppone, o semplicemente non è d’accordo o immagina qualcosa di diverso). Di non facile lettura, soprattutto all’inizio per i troppi intrecci di storie diverse che si fatica un poco ad accomunare fra loro (ma questo rappresenta un pregio non un difetto, una qualità che “stimola” l’intelligenza, già avvertibilmente feconda nelle precedenti prove di sceneggiatore ardito e complesso fornite per Traffic e per Magnolia), può in qualche modo sconcertare, ma è sufficiente lasciarsi coinvolgere dai raccordi e dai rimandi per cogliere l’importanza del progetto complessivo e della grandiosità degli intenti, per essere trascinati in quella trama perversa che diventa sempre più chiara e inequivocabile nelle sue implicazioni, con la evidenziazione esasperata di doppi giochi, tradimenti, intrighi e corruzioni che coinvolgono ogni strato della società fino ai più alti livelli governativi. Nessuna speranza per il futuro: il mefistofelico potere del petrolio lega le sorti delle nazioni e della gente che le rappresenta, dannandone l’anima, determina scontri di civiltà, terrorismo, guerra e devastazione, in un progetto tutto preordinato e precostituito nel quale niente accade per caso e ogni azione è indotta, diventa “causa” e al tempo stesso “effetto”, conseguenza inevitabile di un programma ormai inarrestabile definito ed immutabile, dove nessun raddivimento (o ripensamento) è possibile, perchè il diavolo si è già preso tutte le anime che contano e Dio, nonostante tutte le balle che ci raccontano, non esiste. Un tema così tragico e drammatico richiede attenzione, deve suscitare interesse partecipato e bene ha fatto il regista a creare un impianto così tentacolare per “sollecitare” e costringere all’attenzione la nostra materia grigia sempre più disabituata ad immergersi nel profondo per capire (ma priva ormai da tempo anche del semplice allenamento che la induca a rimanere pensante e indipendente nel giudizio e nella valutazione). Lo sforzo di “comprendere” e collegare rappresenta allora una salutare operazione di “recupero” delle coscienze critiche, quasi una cura di disintossicazione necessaria per squarciare il velo e farci conoscere quella realtà negata che non vuole farci ammettere che la vera droga che ammorba le nostre esistenze, è rappresentata da questo asservimento totale e assoluto al petrolio, e alla conseguente necessità di mantenere il controllo delle risorse in esaurimento e dei prezzi perché solo così potrà essere conservato il potere e il dominio. Certo il numero esorbitante dei protagonisti, la differente collocazione dei singoli episodi che si intrecciano e si accavallano, le tantissime location geografiche che ci spostano continuamente da Washington a Beirut, da Ginevra a Teheran, dall’Arabia Saudita a Huston e così via, possono farci sentire all’inizio “confusi e sballottati”, ma se ci mettiamo un minimo di impegno e di attenzione, ci accorgiamo che poi è davvero più semplice del previsto districarsi nel diagramma, capire e connettere gli sviluppi e gli spostamenti, perché “tutto è collegato” e ogni storia rappresenta una pedina inconsapevole ma prioritariamente importante, di una strategia molto più grande e complessa dove l’America (causa e vittima di quell’11 settembre davvero inevitabile), con le sue scelte, le sue politiche e le sue degenerazioni, gioca ancora una volta un ruolo di primaria importanza, che è all’origine di quel vortice inarrestabile. E’ sorprendente rilevare l’alto numero di film importanti che con approcci e metodologie differenti fra loro, stanno mettendo il dito proprio sulla piaga: evidentemente il pericolo è davvero forte e avvertibilissimo almeno in una certa fascia colta e pensante… eppure “nonostante tutto questo” Bush ha ancora il potere, continua a proliferare…e l’immagine che mi hanno riportato di quel paese e dei suoi abitanti alcuni amici di recente ritornati in Italia dopo un soggiorno piuttosto prolungato nelle sconfinate, ottuse province dell’interno di quella contraddittoria Nazione, risulta davvero molto meno ottimista di quanto potemmo immaginare o supporre da quello che ogni tanto ci viene raccontato in televisione o sui giornali, perchè laggiù in quelle zone opache e desolate continua ad essere radicato il “razzismo” ideologico, il nazionalismo esasperato e a prevalere la volontà della difesa ad oltranza e a qualunque costo dei propri privilegi e della propria superiorità di americani… e allora Bush rimane il riconosciuto profeta di queste aberrazioni assolute. Ancora una volta quindi onore e merito a Clooney che ha contribuito alla realizzazione di questo film davvero necessario e importante (e ne è anche uno dei tanti interpreti, sensibile e appropriato, vulnerabile e impaurito al punto giusto, capace di mettersi al servizio del progetto anziché dominarlo come spesso accade ai “divi” o presunti tali). Questo film ha più di una connessione (orientata ovviamente sull’ottica del presente) con il Clooney regista di “Good night and Good luck”, sono in un certo senso due opere che rappresentano due facce di una stessa medaglia, una maniera singolare e coraggiosa per evidenziare e universalizzare un disagio che non può più essere solo “privato” di questo personaggio “contro” che grazie alla posizione e alla “visibilità raggiunta”, è in grado di utilizzare il suo carisma (al pari di Spielberg e di molti altri illustri nomi di primo piano) per coercire il sistema ufficiale utilizzando le sue logiche comunicative e di divulgazione, proprio per “remare contro” e trasmettere messaggi di diversa natura. C’è comunque a mio avviso un altro tema portante all’interno del film analogamente potente e primario che mi sembra di avvertire con prepotenza. Quello del rapporto padre-figli, filo conduttore di quasi tutti gli episodi (e non credo che sia assolutamente un caso questo, ma una precisa “necessità” che ha un peso determinante anche sull’ottica complessiva) sufficientemente intrigante da farmi avvertire la necessità di ulteriori riflessioni critiche proprio in questa direzione (la materia complessa richiede oggettivamente una lettura approfondita e stratificata che una semplice e sola visione non è sufficiente a restituirci con la gamma completa delle implicazioni e degli intendimenti). Sarà sicuramente uno spunto stimolante per una revisione del film partendo da questa angolazione, una volta svincolata l’attenzione dalla necessità di seguirne gli sviluppi che il primo impatto inevitabilmente privilegia. “Non vedere il male”: questa è la tragica realtà… non solo non lo vediamo, ma quel che è peggio, “non lo vogliamo vedere”.
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