Regia di Martin Ritt vedi scheda film
Ritt ha vinto la partita nonostante gli inevitabili compromessi come quello che riguarda l'ottimismo sbrigativo e sospetto della conclusione rispetto al libro. Per fortuna infatti è riuscito a mantenere intatte anche sullo schermo le atmosfere oppressive di tragico disfacimento che avvolgono i membri della famiglia Compton.
Fra tutti i romanzi di Faulkner, "L'urlo e il furore" potrebbe sembrare quello che presenta le maggiori difficoltà di adattamento in immagini. I risultati della trasposizione fatta nel 1959, pur non eclatanti, sono invece una dimostrazione di come sia possibile "rispettare" lo spirito profondo di una modalità irripetibile di utilizzare la parola, semplicemente dimostrando l'umiltà dell'attenzione e del rispetto. Ed è singolare rilevare come questa volta lo scrittore, pur fra arbitri e mutilazioni inevitabili, riesca comunque a "cascare in piedi", segno evidente che la forza vitale dei suoi personaggi, i succhi asprigni della sua prosa sincera e profondamente coinvolgente, ha comunque la capacità di sopportare senza eccessivi danni, almeno in questa circostanza, l'inevitabile operazione di annacquamento e semplificazione che il cinema spesso richiede, sempreché il tutto sia portato avanti e realizzato tenendo presente la necessità prioritaria di lasciare inalterato il sostanziale rispetto del “senso” profondo che è all’origine della storia, onorando così per lo meno lo spirito del testo. E Martin Ritt ha dimostrato in questa circostanza di avere avuto il “pudore necessario” per essere vincente, nonostante che gli inevitabili "compromessi" siano comunque avvertibili e indubbiamente pesanti, soprattutto per quel che riguarda ancora una volta l'ottimismo sbrigativo e sospetto della conclusione. In effetti quello che risulta fondamentale in questa “ardita operazione” è soprattutto la constatazione che le atmosfere oppressive di tragico disfacimento che avvolgono i membri della famiglia Compton, non sono state compromesse sullo schermo, che ripropone perfettamente integra tutta la tragicità di questo manipolo di “relitti umani” relegati all’interno di un mondo “arcaicamente preistorico” che fa da cornice agli avvenimenti. Ritt ovviamente, sullo sfondo di in Sud ampiamente “miticizzato” fra ville fatiscenti e cittadine afose e sonnolente, più che a una traduzione meramente letterale (francamente impossibile considerando l’andamento interiorizzato e frammentario, quasi crittografico - soprattutto per quanto riguarda la prima parte - della prosa faulkneriana) ha dovuto semplicemente “accontentarsi” di dare “spazio ai fatti”, rispettando persino la convenzionalità cronologica di un racconto in immagini che risultasse perfettamente accessibile per la ricettività non molto “avanguardistica” del pubblico dell’epoca. Si è così potuto affrancare dalla necessità di essere pedissequamente fedele al testo (che è spesso un vincolo ingombrante come un macigno quasi sempre capace con questa semplice pretesa, di inficiare il risultato di molte riduzioni cinematografiche di racconti corposi come questo, per la insostenibile condensazione persino eccessivamente evasiva di una molteplicità di eventi difficilmente semplificabili) per privilegiare lo scavo delle umanità disturbate e ribelli dei suoi “attori in commedia”, concentrandosi con indubbia intelligenza e insospettabili doti di penetrazione introspettiva, sulle psicologie e i coinvolgimenti emotivi (ma al tempo stesso salvaguardando integralmente i segni distintivi ed essenziali della personalità e del mondo di Faulkner) non solo nella definizione prioritaria dei “protagonisti del quadro”, ma anche evidenziando con invidiabile sintesi, i conflitti di quelli più vicini alla cornice. Certamente non tutto (purtroppo) resta davvero integro e inalterato, perchè risulta inevitabilmente smussato per esempio proprio il fatalistico pessimismo dell’autore (caratteristica prioritaria e imprescindibile del suo modo di raccontare) per la necessaria concentrazione prioritaria che privilegia i due unici personaggi positivi della vicenda (perché al cinema e soprattutto in quegli anni questo aveva il suo peso e non poteva davvero essere disatteso): Jason, il parente acquisito che lotta per riscattare il nome della famiglia dal dissesto morale e materiale, e la nipotina Quentin (un nome che nel romanzo rimanda inquiete assonanze “dinastiche”) la nipotina ribelle che tenta di opporsi alle maniere brusche e manipolatrici con le quali il giovane capofamiglia intende plasmarle la vita. Tutto il resto, un poco “scolorisce e si appanna” (ma non del tutto fortunatamente), perché il motore propulsore del film è proprio il contrasto fra queste due personalità contrapposte, entrambe energicamente volitive, che finirà – inevitabilmente – per sfociare in un’amorosa intesa. Fin qui allora niente di particolarmente eccitante e significativo, ma Ritt è stato bravissimo a “dare voce anche al contorno”, ed è proprio attraverso la rappresentazione dello squallido coro dei personaggi secondari, i componenti di “quella famiglia” di ebeti tarati e vaneggianti con il suo seguito di servi negri queruli e acquiescenti, esatto specchio e testimonianza della ristagnante degenerazione del profondo Sud così magnificamente esaltato in tutto il suo degrado, che si riconoscono inalterati gli accenti più autenticamente faulkneriani, si avverte il peso della tragicità degli eventi rappresentati e delle loro conseguenze devastanti. Anche la resa degli interpreti è di ottimo livello (e ancora una volta sono le figure di contorno a primeggiare, da Ethel Waters, amorevole e brontolona nutrice di colore a Jack Warden, intenso e tragico al tempo stesso, senza dimenticare la superlativa prova di John Beal che restituisce magnificamente il dramma del consapevole avvilimento di un alcolizzato una volta tanto non di maniera). Di assoluto rilievo comunque anche le protagoniste femminili, soprattutto Joanne Woodward che ribadisce le qualità (e i limiti) di una recitazione tutta di testa. Un tantino più di maniera la resa di Margaret Leighton in altre circostanze capace di maggiori e personali introspezioni e qui forse troppo sbilanciata verso una mondalità che potrebbe identificarsi più propriamente (e lo scarto non è indifferente) con quella più decadente e “malata”, quasi “maledetta” di una eroina Williamsiana (si possono infatti avvertire echi evidenti che rimandano inequivocabilmente alla Blanche Dubois di “Un tram che si chiama desiderio”). Di Yul Brinner infine che dire? sicuramente ha il physique du rôle, e questo è già una caratteristica che da sola conferisce carisma al personaggio, ma indubbiamente sarebbe stata preferibile la presenza di un attore che alla fisicità prepotente e impenetrabile, potesse accoppiare anche una più pregnante e perforante qualità “professionalmente ineccepibile” capace di restituire davvero tutte le sfaccettature di una personalità molto complessa, anche sotto il profilo psicologico.
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