Regia di Bennett Miller vedi scheda film
Nel 1959, quando incappò nel trafiletto sul New York Times che raccontava il massacro dei Clutter (una famiglia di agiati agricoltori del Kansas, sterminati una notte senza motivo apparente), Truman Capote era già una star della scena newyorkese: famoso per i suoi articoli e per Colazione da Tiffany, elegantissimo, blasé, caustico, cinico, autodistruttivo, con la sua taglia minuscola, la sua testa tonda e la sua voce chioccia. Philip Seymour Hoffman è Capote, in un’adesione fisico-fonetica sorprendente che però non ha nulla del fastidioso mimetismo da imitatore che aleggia spesso sulle biopic, ma suggerisce piuttosto una dolorosa immersione nel personaggio. Che è ambiguo, fastidioso, seduttivo, inerme. Che tiene le distanze dalle sue “creature”, dai due assassini che sta sfruttando, ma dai quali si sente anche attratto, dei quali sente l’affinità, il legame da “fuori casta”. Il film di Bennett Miller ha l’intelligenza di non dire esplicitamente tutto questo, ma di limitarsi a suggerirlo attraverso gli insistiti primi piani del protagonista e le sue digressioni vanesie. Miller tende a realizzare un’operazione simile a quella di Capote con A sangue freddo: una cronaca lucida, asettica, di un avvenimento mostruoso. Ci riesce soprattutto nella prima parte, quando procede per piani, campi, stacchi netti, in un progressivo avvicinamento dello scrittore alla sua “materia” e del film al suo protagonista. Poi la distanza rischia di trasformarsi in freddezza e quando alla fine, inevitabilmente, anche Miller deve concludere, non riesce a trasmetterci il sollievo colpevole che Capote provò al momento dell’esecuzione di Perry Smith e Dick Hickock.
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