Regia di Bennett Miller vedi scheda film
In un Paese strano, l’America, in cui una persona “non ha il diritto di ammazzarsi”, perché “è un diritto del popolo”, si svolge la storia di un personaggio raffinato, elegante e gay: Truman Capote. Ispirandosi alla biografia di Gerald Clarke, l’esordiente (e promettente) Bennett Miller, torna su un soggetto magnificamente sfruttato con l’indimenticabile A sangue freddo di Richard Brooks del 1967, concentrandosi sulla genesi dell’omonimo libro, opera che negli Stati Uniti diede vita al genere del romanzo-verità.
Nel 1959, Truman Capote, autore di “Colazione da Tiffany” e vera star del jet set americano, si imbatte in un articolo del “New York Times” in cui si parla di una strage avvenuta ad Holcomb, in Kansas, dove una tranquilla famiglia di agricoltori, una coppia e due figli, è stata brutalmente assassinata. Lo scrittore pensò di indagare sulle reazioni della piccola comunità di provincia di fronte a un fatto tanto brutale quanto inaspettato. Solo in seguito, parlando con i due uomini in carcere per il delitto, Capote intuì la possibilità di trasformare la storia in un libro, raccontando il punto di vista dei due assassini, cercando di penetrare nelle loro motivazioni: era solo l’abbozzo di quello che sarebbe diventato il libro più noto dello scrittore, ma nacque anche un ambiguo rapporto con i due assassini, verso i quali Capote non riuscì, suo malgrado, a mantenere le distanze.
L’ottima sceneggiatura di Dan Futterman si concentra, nella prima parte, sulla personalità dello scrittore, sulla sua eccentricità spesso istrionica e cinica, e sulle reazioni che un personaggio come lui suscita nella comunità con cui viene a contatto. Ed è proprio dalla constatazione di queste reazioni (superate dalla “mediazione” di Harper Lee, amica dello scrittore e Premio Pulitzer per “Il buio oltre la siepe”) che Capote inizia a provare una malcelata empatia verso i due assassini, outsider come lui; parlando in particolare di Perry, quello con cui stabilisce il rapporto più profondo e duraturo. Tanto che Capote ammetterà che “è come se noi due fossimo cresciuti nella stessa casa: un giorno lui è uscito dalla porta sul retro e io da quella davanti”.
La straordinaria bravura del giovane regista non solo è visivamente audace, ma desta stupore anche il suo modo di raccontare, non solo del rapporto tra Capote e Perry, ma molto anche dello scrittore, attraverso i rapidi flash del suo passato, facendo parlare le sue reazioni e sottolineando l’evoluzione, nel corso della storia, del suo modo di rapportarsi al criminale. Bennett è quasi ossessionato, come il protagonista del film, dal racconto di un artista e della sua creazione, ad ogni costo, anche a discapito delle vittime e dei loro carnefici.
In tutto questo, un ruolo fondamentale è giocato dall’immensa interpretazione di Philip Seymour Hoffman, la cui somiglianza con il vero Capote è da far paura, la sua aderenza al personaggio, con una straordinaria ricchezza di dettagli, a livello di espressività facciale, di movenze e di intonazione vocale (che grave omissione non poter vedere il film in lingua originale!) è impressionante. Infatti, la voce sorniona dello scrittore è, purtroppo, ridicolizzata dal doppiaggio italiano, tuttavia la grande performance del protagonista è talmente potente da far (quasi) superare e dimenticare il fastidio.
Il film è assolutamente privo di moralismo e di ogni forma di giudizio, pur essendo chiaro il punto di vista del protagonista, sofferente dinanzi alla sola idea di un Paese che ammette la pena di morte. Tanto che il desiderio di aiutare i condannati, di non mostrarli come mostri, bensì come esseri umani, ci fa pensare a quanto possa valere la pena affidare in tempi come quelli che viviamo (Guantanamo, Abu Graib…) tutti i cinque Oscar, i più importanti, a cui questo film è candidato.
Giancarlo Visitilli
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