Regia di James Mangold vedi scheda film
Un biopic tradizionale, professionale ma scontato, come se ne contano a bizzeffe fra le proposte Hollywoodiane degli ultimi anni, pellicole dove già dalla prima sequenza puoi immaginarti senza sforzo come andrà a finire (e non solo perché il personaggio è conosciuto e noto e certi eventi si possono al massimo correggere ma non modificare del tutto)
Dal punto di vista strettamente narrativo, c’è davvero pochissimo di nuovo sotto il sole: un biopic tradizionale, professionale ma “scontato”, come ormai se ne contano a bizzeffe fra le proposte Hollywoodiane degli ultimi anni, pellicole dove già dalla prima sequenza puoi immaginarti senza sforzo “come andrà a finire” (e non solo perché il personaggio è conosciuto e noto e certi eventi si possono al massimo “correggere” ma non modificare del tutto). E’ semmai l’ottica a risultare conformemente consueta, tale cioè da farci comprendere da subito, fin dalle primissime immagini, come sarà “organizzato” il concatenarsi degli eventi nella progressione drammatica fra “genio e sregolatezza” di “una vita al massimo” che molto “osò”, molto “rischiò” e molto “ottenne”, fino a raggiungere il risultato sublime del riconoscimento definitivo e irreversibile, preludio a quell’immortalità indelebile che è prerogativa di pochissimi eletti. Queste rivisitazioni agiografiche, risultano spesso troppo “buoniste” anche quando tentano di analizzare i lati oscuri delle cadute (ai giorni d’oggi non più obliabili), ammettono “responsabilità, colpe e trasgressioni” una volta inimmaginabili nelle edulcorate trasposizioni celebrative di epoche ormai lontane (ma proprio per questo poeticamente astratte), dove si riusciva a negare persino l’evidenza pur di non macchiare l’adamantina positività dell’eroe di turno. E il metodo di approccio non cambia, sia che si intenda parlare di cantanti famosi o di personaggi del mondo dello sport, di musicisti o di cineasti. Fortunatamente le eccezioni ci sono e non infrequenti, senza necessariamente arrivare ai provocatori eccessi di Russel (mi viene da pensare a Lenny di Fosse o a Toro scatenato di Scorsese, a The man on the moon di Forman, ad Alì di Mann, o anche al contemporaneamente in sala Truman Capote, tutti capaci di andare ben oltre la cornice e di raschiare sotto la corteccia.) Altre volte si hanno intuizioni coraggiose e innovative solo sulla carta, ma banalizzate nei risultati pratici (penso all’occasione perduta di The Aviator di Scorsese, per una volta “impantanatosi” nei meccanismi di una mega produzione finalizzata al premio finale da perseguire con ossessiva certezza - ma che fortunatamente non è stato elargito - rinunciando per questo a buona parte della sua carica eversiva) che lasciano l’amaro in bocca degli appuntamenti mancati e delle aspettative tradite. Più frequentemente però si rimane ancorati alla ricostruzione fedele del “santino” (Ray) , al manierismo inerte (Great ball of fire ) o alla visione “favolisticamente utopica” tipo Cinderella Man di Howard che è solo un po’ più realista nella intelaiatura ma non certo nei risultati pratici. E questo Walk the line (ennesima scempiaggine italiota la tremebonda traduzione in “Quando l’amore brucia l’anima” che sembra quasi un titolo mutuato da un fotoromanzo di Gramd Hotel!!!) ha a mio avviso molte assonanze strutturali proprio con l’ultimo gruppo citato: forma ineccepibile, ricostruzioni accurate e credibilmente realistiche, e uno “spessore” umano dei protagonisti in linea con le aspettative di chi vuole (pretende) di “identificare” il mito con quanto già sa e conosce, (uguale e conforme all’idea) per continuare ad amarlo e venerarlo senza scossoni o traumi. Francamente io speravo che affrontando un personaggio discutibile e discusso come Cash, al di là del suo valore intrinseco, e attingendo direttamente alla fonte dei sui scritti per creare la “storia”, si riuscisse a scalfire quella superficie di insopportabile mielismo che si estrinseca ancora una volta nel consueto “due volte nella polvere, due volte sull’altare” di Manzoniana memoria, o peggio nel fastidiosissimo, ripetitivo percorso “dalle stalle alle stelle e viceversa, per risalire ancora alle stelle”, fino alla definitiva beatificazione dell’eroe, con tanto di esplicative quanto sbrigative didascalie finali per raccontarci succintamente il positivo epilogo del “vissero felici e contenti”. Forse un tantino troppo sovrabbondante nella durata e alquanto ridondante, Walk the line è comunque “godibilmente pianificato nella sua scorrevolezza” (solo un po’ troppo patinato e perbenista) e con alcuni momenti “forti” ben calibrati (quasi tutti situati nella zona “d’ombra” della vita del protagonista) che ne riscattano in gran parte il valore. Quasi tutto ricostruito all’interno di un lungo flashback (l’inizio, all’interno della prigione di Folsom dove Cash terrà poi una delle sue più famose esibizioni incidendo dal vivo il mitico album “Live at Folsom Prison” è folgorante), il film, partendo dall’infanzia non proprio felice, contrassegnata da lutti (la precoce morte del fratello) e incomprensioni (il rapporto comunque teso con il padre), si concentra soprattutto, dopo i travagliati momenti dell’esordio, sul particolare rapporto che lo legherà per tutta la vita a June Carter, personaggio chiave e determinante del suo percorso esistenziale. Possiamo quindi dire che Walk the line è soprattutto una grande storia d’amore (e non solo per la musica, ma anche per una donna eccezionale e determinata, che diventerà la principale fonte di ispirazione per Cash, la sua Musa e il suo obiettivo, e lo accompagnerà poi, superati i momenti difficili della crisi e della droga, per tutta la sua vita fino alla morte). I punti di forza, sono tutti da ricercare in una sceneggiatura di ferro (che avrebbe meritato maggiore fantasia visiva da parte di Mangold , qui invece “solo” e “soltanto” correttamente professionale) e in una resa attoriale superlativa e carismatica (grandiose, immense le prove sia di Joaquin Phoenix che di Reese Witherspoon - ma l'scoar assegnato a quest'ultima ai danni della Huffman di Transamerica grida vendetta, è una vera "rapina a mano armata" - che si assumono anche l’onere di reinterpretare dal vivo le canzoni senza far rimpiangere gli originali, con uno sforzo interpretativo che restituisce ai personaggi una forza emotiva e una veridicità davvero inconsuete. Sotto il profilo musicale poi il film è addirittura trascinante (soprattutto per chi ama il country and blues) e non solo per Cash e la Carter e le loro canzoni, ma anche per il giovane Prlesley e Jerry Lee Lewis (analogamente reinterpretati anche musicalmente parlando) “sfiorati” marginalmnete nelle prime tournee del cantante.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta