Regia di Duncan Tucker vedi scheda film
Bree è un continente parzialmente inesplorato. Una terra vista dall’alto e intesa grossolanamente nella sua superficiale compostezza di confini. Un tailleur rosa, la borsetta in tinta, le unghie perfette e le movenze troppo morbide e caricate di delicata femminilità per essere vera. E’ un sogno il suo, di essere ciò che si sforza di apparire, è la proiezione dell’ologramma del suo io sul un sé sbagliato. E’ una terra che ha bisogno di essere capita almeno da uno strato sotto la superficie, Bree, dalle radici che legano indissolubilmente l’essere alla creazione. Così è l’America, vista da lontano, un sogno. Perfetta nel suo liberismo istituzionale, tenuto insieme da una rete di pregiudizi radicati nella più semplice delle cellule componenti la materia prima di ogni società: la famiglia. Transamerica è un viaggio attraverso quelle terre alla ricerca dello strato più profondo dell’essere, attraverso l’America, attraverso sé stessi. Bree una volta era colpevolmente Stanley, la colpa di un errore che traduce in maschio tutto quello che spunta dal corpo umano senza rendere conto di ciò che viene inteso sentito e sofferto all’interno di esso. La prova, un ridicolo ammennicolo da asportare chirurgicamente e la comparsa dell’ultima impennata d’orgoglio di quell’ammennicolo, quasi a ribadire in un ultimo gesto di drammaturgica ampiezza la supremazia della natura, giusta o sbagliata che sia della carne sulla psiche, quantificabile in un prodotto della meccanica dell’accoppiamento umano. Un figlio, Toby. Un errore che non si può rimuovere chirurgicamente. Un bellissimo e delicatissimo film, trattato con una buona mano di humor , Transamerica, intelligente nel trattare il tema del transessualità senza scadere in banalità pecorecce o stereotipi macchiettistici da cabaret tipico di troppi film di genere e sorretto da un coro di attori ispirati che accompagnano nel cammino una stupefacente Bree/Stanley/Felicity Huffmann, novella Tootsie dell’America che non fa sconti quando si tratta di scendere a patti con i propri virili pregiudizi, Il tailleur rosa pastello di Bree che fa tanto promotrice Avon, fa a pugni con gli scenari quasi western che i due protagonisti attraversano, un’anomalia che mina le certezze di una terra che sulle certezze ha fondato tutta la propria ipocrisia. Basta una piccola neo promessa donna esageratamente cortese e stereopaticamente femminile per mettere in crisi un sistema di valori radicato come la famiglia e la società di cui è cellula base. Almeno quella tradizionale. Bree deve accettare la propria parte maschile identificata nel figlio ribelle per colmare la parziale personalità che si è costruita, per essere non solo donna ma persona completa, come per il figlio dedito a prostituzione per pagarsi la droga sarà indispensabile affondare la mano nella terra alla ricerca delle proprie radici e riacquistare rispetto per il suo corpo, così solo scoprendosi e accettandosi l’un l’altro, al di la delle convenzioni di facciata, potranno entrambi essere liberi di essere liberi.
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